Whiplash, il secondo lungometraggio di Damien Chazelle – il primo ad aver riscosso una certa risonanza di pubblico e critica dopo che il suo debutto Guy and Madeline on a Park Bench (2009) era rimasto confinato al circuito dei festival – è uscito nelle sale nel 2014, dopo essere stato presentato al Sundance Film Festival. Candidato a 5 premi Oscar ne vincerà tre: Miglior attore non protagonista a J. K. Simmons, Miglior montaggio a Tom Cross e Miglior sonoro a Craig Mann, Ben Wilkins e Thomas Curley, perdendo invece il premio come miglior film (quell’anno vinto da Birdman) e quello per la migliore sceneggiatura non originale (andato a The Imitation Game), in un’edizione particolarmente ricca in cui restarono a secco anche piccole grandi perle come Nightcrawler e Foxcatcher.
Racconto parzialmente autobiografico dello stesso Chazelle (il quale durante l’adolescenza aveva affiancato lo studio della batteria jazz alla sua formazione cinematografica), il film ha come fulcro il genere musicale moderno più codificato e al contempo spiritualmente anarchico che esista, il jazz, genere già al centro dell’esordio cinematografico del regista e in seguito riproposto nella sua opera terza, La La Land. Sia Whiplash che La La Land verranno accusati di essere film troppo borghesi e bianchi per trattare del jazz. Tuttavia bisogna ricordare che, nonostante le sue origini popolari, negli Stati Uniti questo genere è stato ormai radicalmente istituzionalizzato e imborghesito.
Tornando alla storia, Andrew Neiman (Miles Teller) è un giovane e solitario batterista jazz, studia presso il prestigioso Conservatorio Schaffer (sotto cui si nasconde la Juilliard School di New York), non ha alcun interesse al di fuori della batteria, non ha amici e la sua sembra più una dedizione cieca che una passione ardente. Viene notato dal maestro Terence Fletcher (J.K. Simmons), il quale lo inserisce nella sua orchestra trascinandolo in un vortice di aspettative mai completamente soddisfatte, esercizio durissimo vanificabile da una semplice distrazione, precisione assoluta che mai potrà dirsi raggiunta.
Già nella prima scena, in cui vediamo Andrew suonare in solitudine in un’aula isolata della scuola, assistiamo a una palese, e forse anche un po’ telefonata, rappresentazione del suo io: il suo corpo, il suo strumento, il loro rapporto violento e febbrile, il niente intorno. Non è una versione giovanile del Sebastian che vedremo in La La Land: dove Sebastian è sognatore, appassionato e speranzoso, Andrew è arido, concreto e furioso.
Il nostro protagonista è inespressivo, sorride poco, la sua unica occupazione oltre la musica è andare al cinema con il padre, professore di lettere e scrittore fallito, abbandonato dalla moglie. Non si sforza di farsi amare né dai compagni né dai familiari (che certamente disprezza), e probabilmente nemmeno dal padre, con cui non sembra avere un vero rapporto né un dialogo significativo, ma che sembra soltanto fungere da antidoto alla sua desertificazione emotiva. E quando Andrew permette ad una nuova persona, Nicole (Melissa Benoist), di entrare nella sua vita, la subordina alla musica fin dalle prime battute, e nel momento in cui la scarica non mostra certo di rimpiangerla. Anche qui, così come in La La Land Sebastian e Mia lasciano indietro l’altra persona per raggiungere il proprio scopo salvo poi rendersi conto che non erano davvero l’una ostacolo per l’altro, Nicole non è altro che una tangente nel percorso di non-crescita di Andrew.
La Musica no, non è importante. In La La Land Sebastian respira jazz così come Mia respira cinema, qui Andrew fa musica più per una pulsione irrazionale atta a prosciugare la sua essenza e a scaricarla sullo strumento. Ascolta musica ma a tratti sembra quasi disinteressato anche al jazz, e in alcuni momenti sfoga la sua violenza sulle casse della batteria direttamente con le mani e senza la mediazione delle bacchette, proprio perché esse non riuscirebbero ad essere una vera valvola di sfogo. Ed è sotto gli occhi di qualunque spettatore che la musica potrebbe essere sostituita con la cucina, uno sport, qualsiasi pratica che richieda una notevole dose di impegno e dedizione, senza nemmeno troppa creatività o spirito di iniziativa. La La Land è un film di aspiranti artisti, Whiplash un film di esecutori. Di musica si parla sempre in termini tecnici, in numeri, tempi, pochissimo spazio all’aspetto emozionale, “visto dai geometri” come il sesso in Maledetto il Giorno che t’ho Incontrato (Carlo Verdone, 1992).
Il Maestro Fletcher, ispirato ovviamente al maestro reale di Chazelle, che il mondo intero ha visto come un mostro nato dall’unione tra il Sergente Maggiore Hartman di Full Metal Jacket e la Miranda Priestly de Il Diavolo Veste Prada, ha un duplice aspetto. Il suo costume, con una giacca da direttore d’orchestra, nasconde non solo due bicipiti invidiabili specie per un sessantenne, ma anche e soprattutto un atteggiamento da allenatore crudele e sanguinario. Allenatore, non maestro, perché il rapporto assolutamente carnale tra musicista e strumento porta ad un logoramento fisico estremo, più simile a quello di uno sportivo che a quello di un artista: questo è evidenziato, forse anche fin troppo, dalle mani perennemente sanguinanti del protagonista.
Ed è verso la fine che il film giunge nel suo momento più discusso, proprio in seguito all’espulsione di Andrew, alla sua caduta in depressione e alla denuncia ai danni del maestro. I due si incontrano, entrambi sono distanti dal loro obiettivo: scovare il nuovo Charlie Parker per Fletcher, diventarlo per Andrew. Ed è qui che, quando Andrew chiede all’insegnate se quei metodi troppo duri, che avevano addirittura portato ad un suicidio, non avrebbero potuto rischiare di scoraggiare il nuovo Charlie Parker, Fletcher risponde di no: il nuovo Charlie Parker non si sarebbe mai arreso di fronte a quella violenza mascherata da insegnamento. Il regista forse qui non ha il coraggio di prendere posizione, ma forse segretamente riconosce una certa veridicità a quella visione logorante della ricerca del successo, e infatti il personaggio di Miles Teller non riesce a controbattere. Il finale del film, con una vendetta mal riuscita e una maldestra – e allo stesso tempo pienamente consapevole – dimostrazione delle proprie capacità, non risolve questo dubbio. Ma almeno i nostri due protagonisti sembrano aver raggiunto il loro obiettivo.
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