IL REGISTA

Questa 79a edizione del festival di Venezia ha visto il ritorno di Lav Diaz dopo il Leone d’oro vinto nel 2016 grazie a The Woman Who Left – La donna che se ne è andata: è stato un ritorno in grande  forma questo del regista che, sebbene fuori concorso, non avrebbe sfigurato nella sezione principale della Mostra. Il titolo della sua nuova fatica è When the Waves Are Gone e si tratta del film più breve della sua filmografia (“solo” 187 minuti), un noir incentrato sulla corruzione della polizia filippina dove il minutaggio più breve non implica il sacrificio della sua vena autoriale, ancora alle prese con un cinema introspettivo, immersivo, riflessivo, la cui lentezza non dà mai adito alla noia. Il regista ha esordito sui grandi schermi internazionali nel 1998 (Serafin Geronimo: Kriminal ng Barrio Concepcion) ma l’esplosione a livello internazionale è arrivata solo nel 2007 – e sempre grazie al festival di Venezia dove è stato inserito in Orizzonti – con Death in the Land of Encantos (540 minuti), mentre l’anno seguente vince sempre la sezione Orizzonti con Melancholia (450 minuti). Nel 2014 il festival di Locarno lo ha premiato con il Pardo d’oro per From What Is Before, mentre nel 2016 ha trionfato sempre a Venezia con il già citato The Woman Who Left – La donna che se ne è andata.

Sin dai primi anni 2000, Diaz si è affermato come uno dei pochi eredi – e a sua volta uno dei padri contemporanei – del (sotto)genere definito “slow cinema”, chiamato così in virtù delle riprese lunghe e senza stacchi, dello stile minimale e osservativo capace di rende la dimensione come ‘a-narrativa’ e della temporalità del racconto coincidente per la maggior parte del minutaggio con quella spettatoriale. Il cinema di Lav Diaz, come tutto il cinema dei suoi predecessori (Tarkovskij, Antonioni, Theo Angelopoulos, Béla Tarr ecc.) è un’occasione per avvicinarsi a una vera e propria esperienza filmica e contemplativa; infatti non è casuale la durata del film spesso così ampia, perché non si tratta di un cinema da mordere e consumare in un sol boccone ma che piuttosto deve sedimentare, entrare sotto pelle, nei nervi, nella mente, un cinema da vivere a 360° e che richiede un impegno mai fine a sé stesso. Da sempre Diaz produce, dirige, sceneggia e monta i suoi film, curandone anche la direzione della fotografia dove – grazie alla scelta di girare in bianco e nero – riesce a operare astuti giochi di luce anche a scopi narrativi.

Il senso di colpa del detective Hermes (John Lloyd Cruz) si tramuta in psoriasi

“GIOCARE” CON I GENERI

E’ difficile indicare un genere prevalente nella filmografia di Diaz, perché il suo cinema rifugge una schematicità prestabilita, raramente come nel suo caso l’affermazione “il genere lo crea l’autore” ha avuto tanta validità, il regista ha da sempre ammesso di amare indistintamente tutti i generi per la possibilità di giocare con essi, creare innovative commistioni, mescolarli con soluzioni originali e sorprendenti, si potrebbe affermare che nella sua filmografia la preponderanza sia stata affidata al dramma ma Diaz non rifiuta mai incursioni in altri generi proprio come in When The Waves Are Gone in cui, dietro allo straziante destino dei due protagonisti, troviamo un puro noir.

Nonostante abbia affermato che “ogni suo film, in sostanza, è un film dell’orrore”, nel nostro incontro il regista ha detto di voler sperimentare in futuro anche l’horror, di cui un assaggio molto vicino al body horror è già ravvisabile nel film di quest’anno, ma è intenzionato a esplorare anche la commedia e tornare a “giocare” con il musical (nel 2018 ha girato Season of the devil ma tutt’ora sta girando in Spagna un musical su Marìa Barbosa, moglie dell’esploratore e navigatore portoghese Ferdinando Magellano). Diaz ha anche rivelato di aver appena finito di girare una serie televisiva chiamata History of a Filipino Violence – titolo che fa il verso al suo Evolution of a Filipino Family -, una serie di 10 episodi pensata comunque per il grande schermo come un unico film di 10 ore e che, con alta probabilità, sarà presentata a L’International Film Festival di Rotterdam che si terrà dal 30 gennaio al 2 febbraio 2023.

WHEN THE WAVES ARE GONE: IL DRAMMA DI UNA NAZIONE

When the waves are gone è, come praticamente tutto il cinema di Lav Diaz, ambientato nella sua terra natìa verso cui è da sempre lacerato da un rapporto di odi et amo, le Filippine. Qui il tenente Hermes Papauran, uno dei migliori detective del Paese, a seguito delle violenze di cui lui stesso è complice, operate dal corpo di Polizia e sfociate in una feroce e sanguinolenta operazione antidroga ordinata dal presidente Duterte, entra in una profonda crisi. Nel suo errare in cerca di vecchi famigliari e nuovi orizzonti, riemerge dal suo passato un superiore che Hermes aveva fatto arrestare anni prima e che, ora in stato di libertà, lo sta cercando per vendicarsi.

Il regista ha affermato di aver cominciato a girare il film appena prima dell’arrivo della pandemia ma con il risveglio del vulcano Taal avvenuto a luglio 2020 si sono dovute interrompere temporaneamente le riprese al termine della prima parte del film. Poi è arrivata la pandemia, ancora più prepotentemente, e la scrittura del personaggio di Hermes ha preso nuove strade portando a una parte centrale del racconto in grado di sostenersi da sola e avere vita propria, anche separata dal prologo e dall’epilogo che sono comunque stati portati a termine e che vedremo sicuramente in futuro. Le parti totali del film infatti sono tre, per un totale di circa nove ore e When The Waves Are Gone ne è il nucleo centrale.

Nel nostro incontro avvenuto durante la 79a edizione del festival di Venezia, oltre a ribadire il ruolo del film di dichiarata denuncia alle violenze perpetrate nei confronti dei ceti più poveri – ma non solo – dal governo del Presidente filippino Duterte (il cui mandato si è esaurito il 30 giugno di quest’anno), Lav Diaz ha voluto porre When The Waves Are Gone su un piano universale affermando che:

“abbiamo tutti le stesse battaglie da combattere, gli stessi strazi in tutto il mondo, i demagoghi e gli autocrati sono ovunque (Putin, Trump…) e noi abbiamo una maniera molto psicotica e sadistica di approcciarci alle autorità perché gli odiamo, certo, ma perché permettiamo che queste ingiustizie accadano? La vena noir è sorta spontaneamente perché ho cominciato a scrivere il film appena dopo l’uscita di The Woman Who Left e dovete sapere che nelle Filippine, tra il 2016 e il 2019, sono morte più di 30 mila persone per colpa del corpo di polizia. Non penso che le cose cambieranno con il nuovo governo… […] Ma anche volgendo lo sguardo alla situazione esterna alle Filippine: Putin è un pazzo. Putin è un assassino di massa, è il male, è il diavolo, non c’è nessuno che incarni il diavolo peggio di Putin al giorno d’oggi. Dovremmo tutti essere arrabbiati per quello che sta facendo. Ma nessuno sta facendo niente di concreto, siamo tutti perlopiù indifferenti, proprio come la popolazione filippina lo è nei confronti del corpo di Polizia; il male è insito nella natura dell’uomo ma, pensando in particolar modo alla mia nazione, la colpa è di coloro che ci hanno colonizzato, sin dagli spagnoli passando poi per gli americani e arrivando fino all’Impero del Giappone che ha portato purtroppo all’altrettanto terribile ventennio di Marcos. Oggi la situazione non è cambiata e il male è ormai considerato parte integrante del nostro Paese, guidato dall’ignoranza e dalla megalomania, da un misto di psicosi e schizofrenia che divorerà il mondo. Come puoi riuscire a rompere questo muro d’ignoranza che si è impadronito del mondo? Nelle Filippine la violenza è ovunque e la gente resta sempre indifferente, tutti i giorni si vedono corpi martoriati a terra ma nessuno che faccia qualcosa, camminano tutti a fianco indifferenti e noncuranti: l’indifferenza è davvero uno dei più grandi mali del mondo. Nelle Filippine è quasi impossibile non essere corrotti o violenti se si è nel corpo di Polizia, è un problema culturale che va affrontato alla radice ma difficilmente estirpabile.”

Hermes in cerca redenzione

IL TEMPO SECONDO LAV DIAZ

La nostra domanda va oltre il bellissimo “When The Waves Are Gone”: nei tuoi film, sempre tanto lunghi quanto interessanti, abbiamo sempre l’impressione che in una sequenza, anche se estremamente prolungata, ci sia sempre l’essenza della narrazione. Non abbiamo mai la sensazione che ci siano tempi morti perché nello schermo accade sempre qualcosa di necessario e urgente. Se pensiamo ai film di un altro grande maestro dello “slow cinema” come, per esempio, Tarkovskij, troviamo sempre lunghe carrellate senza una vera e propria dimensione narrativa e dove non c’è nemmeno la presenza dell’uomo; questo però non vale per il tuo cinema, con il quale hai preso l’eredità di questi grandi maestri per creare una tua innovativa concezione di temporalità filmica. Sbaglio?

No, non sbagli affatto. Il cinema ha davvero il potere di catturare ciò che non sentiamo e che non vediamo. Sono le piccole cose, i minuscoli dettagli che non vedi e che non senti, ad essere importanti, sono proprio questi che costituiscono le fondamenta dei miei film. Per questo il movimento – o il cosiddetto attributo – dello “slow cinema”, se fai attenzione, se ti immergi nel film, se vivi l’esperienza di questo viaggio immersivo e introspettivo, è più potente di tutto il resto del cinema più rapido, più immediato e più veloce. Attraverso un’opera che ti costringe alla contemplazione, piuttosto che all’intrattenimento, è più facile arrivare all’anima degli spettatori e alla sfera antica e primitiva dell’umanità. Per questo lo “slow cinema” è così potente […] Per esempio, in When The Waves Are Gone ho deciso di inserire delle lunghe e lente sequenze di danza, ma senza musica di sottofondo. E’ stata una scelta naturale perché volevo che il danzare dei protagonisti fosse il più spontaneo possibile, che provenisse, appunto, dalla loro anima e dal loro più puro e incondizionato istinto primitivo. La loro danza è come un rito tribale, viaggia per la storia dell’uomo arrivando in una primordialità dove siamo tutti connessi dai movimenti, dalle danze e dai rituali che eravamo soliti praticare.

Questo articolo è stato scritto da:

Alberto Faggiotto, Redattore