A MONTE DI HOLLYWOOD: HELLMAN TRA INDUSTRIA E AUTORIALISMO
Monte Hellman (12 luglio 1929 – 20 aprile 2021) è stato uno dei cineasti più singolari e più trascurati del periodo di profondo rinnovamento del cinema americano della New Hollywood, tra gli anni ’60 e ‘70. In una carriera alterna e trasversale per temi e generi affrontati, il regista si è sempre orgogliosamente descritto come un duttile craftsman[artigiano, ndr] di solido mestiere. Un abile e svelto artigiano della macchina da presa, dotato però di una peculiare visione del mondo e di tratti stilistici da autore intellettuale, immessi di volta in volta nei progetti – non sempre esaltanti – che si vedeva proposti, e che incamerava di buon grado, come arrischiate sfide da portare a termine nell’esperienza del set, quasi sempre in tempi brevissimi e con budget risicati. Più che uno shooter dell’agonizzante studio system alle battute finali, fu un’imprevedibile hired gun[mercenario, ndr] – per usare il termine con cui lui stesso si definisce in un’intervista.
Mercenario di ventura ma senza rinunciare a metodo e forza delle proprie idee, talento indipendente e irregolare, è stato un outsider due volte: in primis perché radicalmente alieno, per indole, interessi e formazione, ai modi di produzione e alla filosofia commerciale hollywoodiana (pensiamo a un’opera come Cockfighter (1974), con protagonista un allevatore di galli da combattimento che sceglie il mutismo volontario), e poi per come ha rivendicato – eludendo caselle ed etichette della critica – una nicchia più personale, una posizione più defilata dal raggio d’azione dei padri nobili della New Hollywood, in cui pur il suo percorso registico si inserisce a pieno titolo (ma da cui spesso il regista ha preso le distanze).
Nato a New York, poi studente di cinema alla UCLA (Griffith, Pudovkin e Rivette i numi tutelari in accademia, John Huston e Carol Reed le più decisive influenze registiche), si forma nel mondo del teatro, mettendo in scena la prima pièce losangelina tratta da Aspettando Godot di Samuel Beckett (per lui un costante riferimento), per poi impiegarsi come factotum sulle più disparate produzioni cinematografiche.
Diviene così un solerte allievo della factory di Roger Corman, l’attivissimo maestro del b-movie e dei generi a basso costo, che presto lo instrada alla regia facendolo esordire col monster-movie Beast from Haunted Cave (1959), e poi gli affida due film girati back-to-back nel 1964 alle Filippine, il war-movie Back door to hell e l’action-adventure Flight to Fury. Sul questi set affina il sodalizio artistico e umano con il giovane Jack Nicholson (che recita in entrambi i film e sceneggia il secondo), altro membro della scuderia Corman, che Hellman conosce dalla fine degli anni ’50, quando gestiva ad L.A. una compagnia teatrale in cui si affacciavano le nuove promesse del palcoscenico (i due si erano poi ritrovati sul set di The Wild Ride (1960), film su un ribelle della beat generation che vedeva Nicholson protagonista ed Hellman al montaggio). Conclusa l’esperienza nelle Filippine, l’affiatata coppia Hellman – Nicholson vorrebbe virare su Epitaph: una loro sceneggiatura sul tema dell’aborto, cassata però da Corman poiché giudicata inadatta all’audience statunitense.
Sfumato il progetto, i due decidono di prendere le redini del mondo produttivo e fondano la Proteus Film, con cui realizzano il dittico di atipici film western di cui qui ci occupiamo: La sparatoria (The Shooting) e Le colline blu (Ride in the Whirlwind). Entrambi del 1966, girati a ridosso l’uno dell’altro come già nella trasferta filippina, con un budget di 75000 dollari ciascuno e per un totale di circa 36 giorni di riprese nello Utah: Hellman dietro la cinepresa (coadiuvato dal fido DOP Gregory Sandor), Nicholson attore su entrambi i fronti e, nel caso de Le colline blu, anche sceneggiatore (dopo l’attento studio di una collezione di diari di epoca ottocentesca noti come Bandits of the Plains, per riprodurre l’autentico vernacolo dei cowboys).
HELLMAN SPARA (PER ULTIMO) NEL VUOTO: THE SHOOTING (1966) E LA DERIVA DEL COWBOY
Insieme all’epocale road movie Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop, 1971), imprendibile manifesto di cinema libero e controcorrente sul randagismo di riders automobilistici senza nome e senza dimora, La sparatoria (The Shooting) è uno dei riconosciuti capolavori di Monte Hellman.
Senza preamboli introduttivi, né alcuna indicazione geografica e temporale, il film si apre in medias res su un’effigie tipicamente western, quasi il “logo” di un genere che sta per essere disarcionato: il profilo di un cavallo sulla riva del fiume. Inquieto, fiuta qualcosa di strano nell’aria e mette sul chi vive il cowboy Willett Gashade (Warren Oates, attore di rude intensità e carisma scorbutico, feticcio di Hellman, qui alla prima collaborazione col regista), che monta in sella circospetto per fare ritorno al campo-base, in cui lavora come minatore. Qui, in uno panorama desertico che versa in un silenzio irreale, Willett viene prima preso a pistolettate dall’impacciato aiutante Coley (Will Hutchins), che lo scambia per un predone. Poi, chiarito l’equivoco, Gashade apprende da Coley che un misterioso individuo ha freddato il loro sodale Leland Drum, costringendo inoltre alla fuga Coigne, il fratello di Willett: Leland e Coigne, durante l’assenza di Willett, in una sortita nelle vicinanze hanno infatti investito “un uomo e una persona piccola, forse un bambino”, per cui è ragionevole credere che il killer sia qualcuno lanciatosi a caccia dei due uomini per rappresaglia.
Mentre tenta di vederci chiaro sulle sorti del fratello datosi alla macchia, giunge al campo una sconosciuta (l’imperscrutabile Millie Perkins) rimasta senza cavallo, che senza dare troppe spiegazioni offre a Gashade una grossa somma di denaro perché l’uomo la scorti fino a Kingsley. Tra motivazioni oscure e reciproca diffidenza, Gashade e Coley si mettono in marcia con la donna, in un viaggio costellato di enigmi e sorprese, che tra ricerche infruttuose e destini incrociati vedrà la comparsa sul loro cammino di un ombroso pistolero (Jack Nicholson).
L’ambientazione impalpabile e rarefatta palesa immediatamente l’estraneità di Hellman da codici e atmosfere del western classico. All’apparenza non mancano i temi e gli step caratteristici di tante narrazioni del genere (la caccia all’uomo misterioso, il road-movie a cavallo della frontiera, l’assortito “mucchio” disordinato di viandanti con segreti da nascondere, la messa alla prova dell’amicizia virile a contatto con l’ambiguità della presenza femminile, la sfida della natura inospitale sotto il caldo che martoria), ma è come se questi fossero prosciugati di vera consistenza, perdendo progressivamente smalto e spessore. In una “misteriosa compulsione che guida l’azione” verso l’ignoto che sceglie “l’urgenza di abbracciare l’oblio piuttosto che rischiare l’eventualità della monotonia” (come notato dal critico Kent Jones in un saggio su Hellman): l’istintiva e imprecisata spinta ad agire dei personaggi conta più delle reali e fondate convinzioni che li muovono verso un’iniziativa spesso senza risultato. In un intrico irresoluto e contradditorio di indizi, segnali ambivalenti e gesti senza spiegazione apparente (perché mai Gashade taglia col coltello il sacco di provviste a dorso del mulo? Chi è e che ruolo gioca il misterioso uomo con la barba azzoppato nel deserto?).
Inserti disarmonici, leggeri sfasamenti temporali (la lapide del defunto Leland reca la data di aprile, mentre la donna spiega che ci troviamo in marzo), discrepanze che non fanno che accumulare domande inevase e buchi di senso, in un percorso frammentato a narrazione debole, teso su un baratro di torsioni introspettive e di speculazioni irrisolte sulla natura di identità, eventi e relazioni in gioco.
Le sequenze iniziali dell’ingresso in campo della donna misteriosa, che dovrebbero fungere da normali establishing shots sull’ambientazione narrativa, producono al contrario una significativa distorsione e compressione dello scenario western, nel tipico stile conciso ed ellittico di Hellman, fra tagli spiazzanti e rime incrociate delle inquadrature: nel batter d’occhi di pochi frames, con Gashade appena distratto in alto dal verso di un uccello (Figura 1), la donna compare dal nulla in lontananza e in un attimo si ritrova ai piedi della collina di fronte ai due uomini, senza movimento apparente e spostamento visibile, come pronta per un teso triello alla Sergio Leone (Figura 2).
Figura 1
Figura 2
Come se l’epico quadro del grande spazio aperto, disteso su un orizzonte illimitato (di possibilità), si restringesse, con rapidi tocchi di montaggio, nel recinto chiuso e raccolto di un kammerspiel, che annulla la separazione fisica dei personaggi posti in punti diversi nel campo lungo. Azzerandone le distanze spaziali in un ravvicinato duello psicologico di sguardi incrociati e prolungati primi piani (Figura 3), sintomo di come i nessi logici e spazio-temporali pertengano esclusivamente a una dimensione interiorizzata.
Figura 3
Anche nel filmare un motivo classico come l’inseguimento nel deserto, Hellman mostra tutta la sua originale distanza dal canone. Quando il povero Coley, rimasto indietro, tenta di riaccodarsi alle spalle dei tre che procedono in marcia in fila indiana, provoca la reazione del pistolero, che si stacca dalla colonna e volta il cavallo partendo all’assalto di Coley, subito seguito da Gashade (che vuole difendere il compagno), a sua volta imitato dalla donna. Alternando, ancora una volta, le scene in campo lunghissimo – con le sagome dei cavalieri ridotte a silhouette nell’immensa piana – ai totali sui singoli affannosamente al galoppo (Figura 4), Hellman smonta l’epica suspense della traversata invertendone bruscamente il “senso di marcia”. Dove il già accidentato girovagare nel nulla verso una meta irrintracciabile sconta un ulteriore ripiegamento all’indietro, rovesciando la progressione nella wilderness in una sorta di western highway “a doppia corsia”, che precorre il continuo andirivieni tra tregue e sorpassi dei corridori rombanti di Two-Lane Blacktop (1971).
Figura 4
ASPETTANDO GODOT… NEL VECCHIO WEST
Hellman non è un sovversivo iconoclasta come il Sam Peckinpah de Il Mucchio Selvaggio (1968), cineasta del western revisionista per eccellenza, che insozza nella scomoda evidenza della violenza – al massimo grado di espressività – il sanguinario percorso degli uomini del West, deponendo il mito della frontiera in un crocevia che sottomette la conquista della civiltà alla condanna impietosa del progresso, in cui salvare – forse – solo la fedeltà senza compromessi alla propria natura (im)morale.
La rilettura critica e politica del western offerta da Hellman in un’epoca di grandi sconvolgimenti e cesure storiche, condotta in sordina ma altrettanto disillusa e crepuscolare di quella di Peckinpah, conduce ugualmente il genere alla sua stazione finale, allo stadio terminale e senza ritorno delle sue utopie di (ri)fondazione. Solo lo fa da una prospettiva decentrata e dissonante, basata sullo straniamento: una messinscena scarna, sospesa e dilatata, in sottrazione, aperta a un languore psicologico e a una riflessione esistenziale velatamente anarchica e nichilista. Con la strisciante angoscia di un Antonioni della Frontiera che devia dal grande sentiero dell’Avventura del West, destruttura l’epopea e mette fuori pista ambizioni e direzione dei personaggi, abbandonati su tragitti senza meta in cui le tracce sul terreno scompaiono e si confondono, fino ad annullare il senso del loro esserci e procedere a vuoto.
In un paesaggio di secco realismo via via sempre più astratto e indifferente, quando non silenziosamente ostile, che in senso simbolico ed espressionista – come nota Brad Stevens in una monografia su Hellman – fa da correlativo oggettivo dell’aridità interiore dei personaggi e delle asperità del loro stato d’animo, da fondale teatrale di messa in scena delle loro paure e nevrosi. “L’epoca western mi interessa più di qualsiasi altro periodo della storia, senza dubbio perché la ‘situazione dell’uomo’ può essere più facilmente isolata di fronte alla semplicità di un paesaggio e ad elementi ostili”, ha appunto dichiarato il regista. Lontano dalla suggestione imperiosa delle icastiche geografie monumentali di John Ford, i western di Hellman si snodano più marginalmente tra le piane brulle e pietrose, le gole vorticanti e le sporgenze montagnose dello Utah, a Kanab, nei pressi del Parco Nazionale di Zion.
Del western, Hellman sgonfia le premesse, allenta le catene narrative, sfuma i cardini stilistici. Appanna lo status e l’azione delle sue figure mitiche, la valenza di un’iconografia ancora riconoscibile ma ridotta alla scabra essenzialità delle sue unità minime. Nel lento incedere, quasi per inerzia, di pallidi e stanchi cowboys without a cause – e privi di una quest a cui votarsi -, depurati sia dell’epica dei cantori lirici sia del furore agonistico dei ribelli contestatari.
In una poetica della dispersione, dell’attesa e della stasi dove il topos del tribolato viaggio di attraversamento della wilderness – mai così arida e spoglia come una desolata waste land – si carica del senso luttuoso, del vuoto di scopi e ideali del presente dell’epoca. Quel senso di spiazzante disorientamento, paranoia e smarrimento che attanagliava l’America di fine anni ’60, impantanata nei postumi dello shock dall’assassinio di Kennedy e nel trauma in pieno corso della guerra in Vietnam. Come dichiarò lo stesso Hellman, l’idea del finale in anticlimax di The Shooting – quella sparatoria confusa, sgrammaticata e illeggibile tra slow motion, primi piani, immagini a scatti e montaggio sfasato (come nell’uccisione del poliziotto in Fino all’ultimo respiro (1960) di Godard) – gli venne suggerita proprio dalle immagini del fatale sparo di Lee Oswald visionate a ripetizione in TV. L’opacità di un radicale evento traumatico, che gettava nello scompiglio di una visione incerta e senza appigli (come le fotografie del presunto omicidio su cui si affanna l’occhio di David Hemmings in Blow-Up di Antonioni, uscito proprio lo stesso anno di The Shooting). Centrifuga, priva di svolgimento e di un punto di fuga: soltanto un colpo sonoro che buca il silenzio, il resto indecifrabile. La fulminea esecuzione di una traiettoria imprevista a cui è impossibile attribuire senso, movente, direzione: Hellman la rimette in scena come un intricato duello delle identità smarrite e decadute, dall’esito indefinibile: Gashade e Coigne, il cacciatore e la preda, sono fratelli con lo stesso volto (sono la stessa persona?), per cui la caccia alla preda mischia i ruoli e si scopre, in ultimo, uno scavo esplorativo dentro i fantasmi di un’insanabile scissione interiore. Proprio dalle alture del western, Hellman certifica così la fine del sogno ottimistico di riconquistare quella “nuova frontiera” che la presidenza kennediana, prematuramente interrotta, non riuscì a realizzare.
FUGA PER LA SCONFITTA (DEL SOGNO AMERICANO): RIDE IN THE WHIRLWIND (1966)
Come The Shooting, anche Le colline blu (Ride in the Whirlwind) inizia sbrigativamente in medias res, senza indicazioni né orpelli: là avevamo l’inquadratura di un cavallo, qui due anonimi cowboys con l’aria inconfondibile dei banditi, ripresi di spalle sopra una scarpata da cui osservano il paesaggio, in attesa del passaggio della diligenza che, con l’aiuto di altri complici, si apprestano poco dopo a rapinare senza sforzo. Un’aggressione ripresa placidamente, col meccanico incedere di un’annoiata e ripetitiva routine quotidiana, con efficienza distaccata e persino ironica. Si veda quel tronco d’albero di ostacolo al mezzo, spostato dalla strada con pigro andazzo da uno degli assalitori: scena che Quentin Tarantino, grandissimo fan del film, trova immancabilmente divertente (tra le altre cose, Hellman è stato pure produttore di Le Iene, 1992).
Ancora una volta, Hellman finge di ricalcare una situazione pienamente canonica – addirittura inflazionata – del western tradizionale (l’assalto alla carovana/diligenza), per poi raffreddarla privandola di qualunque enfasi e mordente. Destrutturazione resa evidente dalle immagini in dettaglio che accompagnano in successione la comparsa dei titoli di testa: i raggi delle ruote, i pianali della carrozza, il lazo, cinghie e briglie dei cavalli, tutto sembra in precario equilibrio in attesa che si sgancino bulloni e legacci narrativi. La vicenda, infatti, deraglia presto su binari inattesi che arrivano a lambire il terreno dell’introspezione psicologica. Con un programmatico “depistaggio” delle trame del genere. Smantellando un’ideologia dell’eroismo, e una precisa filosofia di vita e film americani, proprio attraverso i miti e i codici che più sembrano rafforzarla.
Hellman riprende il discorso sulla disarmante alienazione e la solitudine congenita dell’individuo moderno, già tratteggiata in The Shooting, da una prospettiva di ripiegamento intimo e antimelodrammatico resa ancor più marcata. Dove spunti di solitaria fuga gangsteristica nel paesaggio naturale (Una pallottola per Roy/High Sierra, Raoul Walsh, 1941), e di holding-hostage movie alla Ore disperate/ The Desperate Hours (William Wyler, 1955) trovano un’inedita e sorprendente chiave di lettura insinuati nei temi dell’incomunicabilità, dell’impossibilità di venire a capo del mistero dell’identità, della mancata espressione dei sentimenti e delle giuste ragioni.
Con l’intensa riflessione esistenziale dei due cowboys Vern (Cameron Mitchell) e Wes (Jack Nicholson) costretti dalle sfortunate circostanze all’impasse di un doloroso bilancio delle loro vite. Innocenti braccati da una posse di vigilantes perché scambiati per i rapinatori della diligenza, riparano in una baita isolata dove, in attesa di recuperare forze e cavalli freschi per proseguire la fuga, tengono in scacco una mite famiglia di pionieri agricoltori (due anziani genitori e la loro giovane figlia, interpretata dalla stessa Millie Perkins di The Shooting). Per scoprire che la sospensione della tregua diventa uno stallo più pericoloso e insostenibile dello scontro a fuoco con i vigilantes – che Hellman, diversamente da The Shooting, filma stavolta con sapiente montaggio, realistico senso dell’accerchiamento e sventagliate di pallottole che sibilano rumorose come nello spaghetti-western -, perché costringe i cowboys a guardarsi dentro senza maschere, e ad ammettere che la pace dell’anima e una salvezza catartica sembrano irraggiungibili.
L’atmosfera mista di scoramento, noia, mestizia e rimpianto dovuti al peso della stanchezza e dei ricordi che vengono a galla, riacutizzati nella convivenza dei cowboys con le due donne nella baracca, è il segmento più intimo e interessante, che apre spiragli di recessione dal plot avventuroso e di dolente dramma da camera impensabili per un western vecchio stampo, bucando la dura scorza dei protagonisti (il breve stream of consciousness di Vern pensoso di fronte alla scacchiera, con il flashback sonoro in cui risente la voce del compagno morto). Ancora una volta emergono disagio e una forma di sottile panico esistenziale. “I was getting a little cabin fever” confessa Wes a Abby, trascinandola con sé fuori dalla rimessa fino al recinto dei cavalli (ma Hellman spegne sul nascere ogni sprazzo di sentimentalismo).
È l’esplicitazione di quella sensazione di sottile claustrofobia – causata del restringimento di spazi chiusi, scomodi, angusti, come nidi decisamente affollati di troppi ospiti rispetto alla ridotta capienza dell’ambiente che li può contenere – che Hellman prefigura fin da una scena precedente: quella in cui tutti i personaggi – i membri della banda di banditi più i cowboy in viaggio – si trovano stipati assieme, gomito a gomito, nella scura penombra di una striminzita baracca di legno (Figura 5).
Figura 5
Studiandosi l’un l’altro naso a naso, tra occhiate sospette e l’imbarazzo di presentazioni guardinghe, con una punta di scalcinata ironia che compromette goffamente la tenuta della tensione. Come già in The Shooting, assistiamo a una contrazione, a uno schiacciamento dell’ampiezza dei tipici sfondi western, che inghiotte in uno stretto imbuto le figure dei cowboys incassati uno sull’altro, come rimpiccioliti e destituiti della loro carica mitica.
Lavorando specularmente tra interni ed esterni, tra ambiente e figura, in The Shooting come in Ride in the whirlwind Hellman comprime e relativizza la presenza umana nello spazio: dispersa nell’apertura dell’orizzonte piatto del deserto, fino a perdere la bussola dell’orientamento sotto i colpi dell’arsura (The Shooting); forzatamente reclusa nelle gabbie di minuscoli rifugi di fortuna e stazioni di sosta, che costringono al rivolgimento interiore, “in scala ridotta”, dello slancio dei cavalieri (Ride in the Whirlwind).
Del resto, anche nel timido scambio di battute a tavola tra Vern e la moglie del fattore emerge il dilemma sulla vera natura della solitudine: se essa appartenga più alla dimensione quotidiana della vita monotona, dimessa, appartata in isolamento della donna (“Kind of lonesome for a woman”), o alla vita nomade e imprevedibile del cowboy (“Same as for man. Seems to me what you do is lonesome”). In quest’amaro universo privo di scopo, il viaggio nella frontiera e il ritorno all’asilo domestico, il furto di cavalli o una partita a dama, l’innocenza e la colpevolezza, virilità e sensibilità, diventano parte dello stesso gioco a perdere, dove mosse e contromosse sembrano vanamente assomigliarsi (“Playing checkers, stealing horses… Just don’t seem to be no end to it” si lamenta Vern. “No use to that”, chiude laconicamente Wes).
In altri termini, nella mappa logora e rivoltata del western di Hellman sembra difficile scegliere qualunque vita possibile: se quella del cowboy è fin dall’inizio segnata dallo sradicamento, che prelude a un tragico destino di morte (il monito iniziale del cadavere impiccato al ramo, di fronte al quale Wes proclama una lapidaria sentenza di accettazione: “Man gets hung”), l’esistenza all’apparenza serena della famiglia di agricoltori è non meno segnata da una sconfortante alienazione: il ceppo colpito a ripetizione con l’accetta dall’anziano patriarca, che scandisce come un monotono rintocco il suo usurante lavoro quotidiano, da cui non ricava nulla, è simbolo di come l’idilliaca purezza di una vita in armonia con la natura sia in realtà già segnata dal ritmo meccanico e spersonalizzante di gesti ripetuti allo sfinimento, come nel ciclo produttivo di una catena di montaggio della modernità in cui l’azione dell’individuo si annulla.
In una gretta microsocietà – per Hellman, fuor di analogia, identificata con il fallace sogno americano tout court – messasi al riparo da rischi e pericoli della vita sui sentieri selvaggi solo per riproporre gli stessi controvalori di dominio e prevaricazione tra il calore stinto del focolare domestico: il vecchio padre di fatto assoggetta le donne al proprio volere, obbligandole all’inflessibile gerarchia dei doveri casalinghi (la figura ambigua e silenziosa della giovane Abby, addetta a portare la brocca con cui il genitore si lava dopo le fatiche quotidiane).
Un falso quadretto naturalista, un piccolo e stolido mondo antico che difende i suoi stock di proprietà privata a colpi di fucile, sostenuto non dalla legge ufficiale bensì dalla giustizia sommaria e arbitraria dei vigilantes cittadini, che danno la caccia alle streghe mettendo il sale sulla coda agli innocenti. Il Selvaggio West tra il candore delle mura di casa, senza protezione dalla violenza che continua a germogliarvi al suo interno, come un’erbaccia che mette radici ovunque: è ancora questa, l’America, oggi?
Note bibliografiche
Raymond Bellour, (a cura di), Il Western, Feltrinelli, 1973
Kent Jones, “The Cylinders were whispering my name – The Films of Monte Hellman”, contenuto in The Great American Picture Show – New Hollywood Cinema in 1970s, Amsterdam University Press, 2004
Brad Stevens, Monte Hellman. His Life and Films, MacFarland, 2003
Michele Fadda (a cura di), American Stranger. Il cinema di Monte Hellman, Edizioni Cineteca di Bologna (2009)
Quentin Tarantino sui western di Monte Hellman: https://www.bfi.org.uk/sight-and-sound/features/quentino-tarantino-monte-hellmans-ride-whirlwind (Articolo apparso originariamente su “Sight and Sound” n°2, 1993)
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