Si può rifare un capolavoro? Steven Spielberg pensa di sì, nonostante anche a sessant’anni di distanza il West Side Story del 1961, diretto da Robert Wise e Jerome Robbins, resti un’autentica pietra miliare del cinema, testimonianza dell’inarrivabile perfezione raggiunta dal musical hollywoodiano classico (di cui il film rappresentò in qualche modo il canto del cigno: venne realizzato in un periodo di profonda crisi dell’industria cinematografica nordamericana e di lì a pochi anni si sarebbero affermati modelli differenti in questo genere). Ancora oggi, riguardando le prime sequenze della pellicola originale, si rimane ammirati per lo splendore dei colori, per i movimenti di macchina calibratissimi, per la precisione del montaggio (pressoché impossibile trovare errori di continuità: ma, d’altronde, Robert Wise in una vita precedente era stato proprio montatore e aveva lavorato nientepopodimeno che a Quarto potere di Welles) e soprattutto per la capacità di delineare limpidamente il contesto di rivalità tra i Jets (i figli di immigrati europei) e gli Sharks (gli immigrati portoricani) senza nemmeno l’ausilio della parola (i primi minuti di film sono pressoché muti), ma solo con lo sfruttamento del ritmato schioccare delle dita per accrescere la tensione e far esplodere i primi conflitti tra le due bande.
Solo un maestro come Spielberg poteva pensare di mettersi a confronto con un modello tale ed essere in grado di rinnovarlo. Per farlo si è fatto affiancare dal fido Tony Kushner, drammaturgo premio Pulitzer già sceneggiatore di Lincoln e soprattutto del capolavoro Munich, che ha aggiunto ampie scene di dialogo, pressoché assenti nell’originale, per sottolineare e attualizzare i temi cardine di West Side Story che, dietro l’anima musical, cela un cuore da dramma sociale sulla difficile convivenza di culture differenti in America. L’innovazione spielberghiana parte sin dalla prima inquadratura: laddove Wise e Robbins aprivano il film con una serie di vertiginose riprese aeree che mostravano New York e i suoi grandiosi grattacieli protesi verso il cielo, Spielberg inizia riprendendo dall’alto le macerie del West Side. Il Sogno Americano, sin da questo momento, è già morto: il quartiere, in corso di sgombero a fini di riqualificazione, pare il set di un film di guerra. La New York del boom economico non esiste, perché Spielberg rinchiude il film in questo quartiere-prigione, in questo scenario di devastazione, dove l’intera tragedia dei personaggi avrà luogo: il West Side Story del ‘61 era il musical dell’era Kennedy, il West Side Story del 2021 è il musical dell’era Trump (la pellicola è stata girata nel 2019). Dopo l’apertura, il regista procede nella narrazione seguendo, a grandi linee, le tappe del film di Wise e Robbins, pur adottando una messa in scena radicalmente diversa: se il film del ‘61 metteva in scena con precisione millimetrica i numeri musicali e li riprendeva dall’esterno, con ampio uso di campi totali e movimenti di macchina abbastanza contenuti al fine di enfatizzare il sublime lavoro coreografico di Robbins, Spielberg predilige complessi e acrobatici piani sequenza, in cui la macchina da presa si fa largo, letteralmente, tra gli interpreti e i ballerini e pare danzare con loro. Ogni inquadratura del film è un tripudio cromatico animato da scenografie e costumi di alto livello: da Oscar il lavoro sugli abiti di Paul Tazewell, che veste i Jets con i toni freddi di grigio, bianco e azzurro, mentre attribuisce agli Sharks una palette cromatica calda, fatta di rossi, gialli e marroni. La fotografia di Janusz Kaminski, che sfrutta molto i riflessi di lente dovuti anche all’uso rétro della pellicola 35mm, alterna la fastosità delle luci diurne alle tenebre notturne, che in alcune scene ricordano quasi la nerissima odissea newyorkese de I guerrieri della notte di Walter Hill, altro film su una città divisa e in preda a lotte intestine. Spielberg, poi, impreziosisce il tutto con una messa in scena di sublimata maestria: registi di questo livello, come lo Scorsese di The Irishman, hanno uno stile così limpido, un controllo così assoluto dei mezzi espressivi della propria arte, che risulta quasi difficile notare la genialità di certe invenzioni visive e sonore, come dimostra il grande lavoro sui raccordi di montaggio (si pensi solo alla fine del primo numero musicale, quando un personaggio lancia in aria un oggetto che è raccolto da un altro personaggio nella scena immediatamente successiva, in una sorta di staffetta cinematografica; ma anche al momento in cui il suono degli archi al termine di un numero musicale si fonde allo stridore dei freni della metropolitana per suggerire il passaggio di scena in scena). Chiaramente si sprecano i riferimenti cinematografici, dal musical classico alle titaniche inquadrature dal basso tipiche di Orson Welles (citato anche nella sequenza iniziale con il cartello “No Trespassing” di Quarto potere), fino alla Nuova Hollywood e, soprattutto, a tanto cinema spielberghiano. Il regista di Cincinnati, peraltro, dopo aver raccontato tante volte il potere salvifico dei bambini (da E.T. l’extra-terrestre a I Goonies di Richard Donner, di cui fu soggettista e produttore esecutivo), fa un film su giovani violenti e senza speranza, rinchiusi – tra grate, recinzioni e saracinesche – in una società in cui il conflitto è endemico e inestirpabile. Spielberg realizza un grande manifesto pessimista su ciò che l’America era ed è: regno di soprusi – di grande attualità è la riflessione sul maschilismo e sulla solidarietà femminile che va oltre le appartenenze etniche, come dimostrato dalla scena del tentato stupro, ben più asfissiante e violenta che nel film originale – e rivalità insanabili.
Tante le sequenze memorabili in questo remake d’eccezione, che sa variare un capolavoro senza farcelo rimpiangere: la scena del ballo è un’assoluta meraviglia registica, anche se il primo incontro tra Maria e Tony, che qui avviene dietro la tribuna di una palestra, non raggiunge la forza espressiva del film originale, che rappresentava il colpo di fulmine tra i due star-crossed lovers sfocando l’inquadratura attorno ai protagonisti, come a mostrare l’appannarsi del mondo attorno a coloro che per la prima volta fanno esperienza dell’amore. Splendida anche la scena del balcone, in cui i due innamorati cantano la celebre Tonight – già separati dalle sbarre della ringhiera, oscuro presagio di un destino tragico –, come anche le sequenze di America – trasferita dal tetto del film originale alla strada, in mezzo al caos urbano e sociale di un paese in ebollizione – e Gee, Officer Krupke, un piccolo capolavoro di satira delle istituzioni, in cui Spielberg dà il meglio di sé con lunghi piani sequenza e una complessa coreografia. Per quanto riguarda il cast, come noto, il regista ha ingaggiato numerosi attori provenienti direttamente da Broadway e ha voluto mettere insieme un ensemble rigorosamente multiculturale, per rendere giustizia al tema cardine del film. In questo senso convince l’idea di non sottotitolare le molte sequenze in lingua spagnola, come a voler costringere gli spettatori a soffermarsi sulla meraviglia fonica di una lingua altra che, anche se non conosciuta, risuona più significativa che mai, nell’essere il manifesto dell’incontro con il diverso.
Tra gli interpreti è straordinaria per intensità Ariana DeBose nel ruolo di Anita, mentre la giovane Rachel Zegler, che anima divinamente le canzoni con una voce di grande potenza espressiva, dà vita a una Maria più adolescenziale rispetto a quella di Natalie Wood, ma ben più tormentata e consapevole delle difficoltà del sogno d’amore che sta provando a coronare con Tony. Rita Moreno, infine, torna nel remake dopo aver vinto un Oscar per la sua interpretazione di Anita nel ‘61: qui interpreta Valentina, personaggio che sostituisce il Doc dell’originale (presentato come il defunto marito gringo della donna, che ha origini portoricane ed era quindi stata a sua volta protagonista di un amore interrazziale). A lei Spielberg e Kushner affidano forse il momento più emozionante del film: la canzone Somewhere – che nell’originale era cantata da Maria e Tony, che sognavano un luogo dove poter vivere liberamente il proprio amore – viene risemantizzata e diviene uno struggente e malinconico lamento con cui Valentina ricorda il marito scomparso e, in seguito ai drammatici eventi dello scontro omicida tra bande, pare evocare un luogo utopico e ancora ignoto – un somewhere, appunto – di pace e armonia, in cui tutti i conflitti e le ingiustizie del nostro mondo possano essere leniti. Spielberg, così facendo, riconsegna il Sogno Americano e le sue promesse alla dimensione del sogno: nel suo West Side Story – e nel nostro presente – ci sono solo macerie. In futuro – someday – chissà… Chapeau, Maestro.
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