L’inconfondibile Wes Anderson: per molti un genio, per altri un perfezionista stucchevole al limite del manierismo di sé stesso, i cui prodotti sono poco più che meri esercizi di stile dal contenuto inconsistente. Cast corali di stelle del grande schermo, un’ironia pungente, un senso tutto artigianale di concepire la messa in scena e una regia che non lascia dubbi: l’immancabile simmetria nella costruzione dell’immagine, la macchina da presa in costante movimento, colori vividi e in netto contrasto tra loro. Chi ha visto un film di Wes Anderson, soprattutto se appartenente all’ultima fase della sua carriera, può dire di averli visti tutti. Nonostante ciò, ogni suo nuovo lavoro viene accolto con attesa e interesse anche da chi, ormai, non si lascia più affascinare dalla formula decisamente fin troppo inflazionata del regista texano. Forse nella speranza che, per una buona volta, dietro a una confezione graziosa si nasconda qualcosa di più.

Con l’acquisto della Roald Dahl Story Company, nel 2021 Netflix ha ottenuto i diritti di tutti i racconti scritti dall’autore britannico, Roald Dahl appunto, e un anno dopo ha annunciato l’impegno preso da Wes Anderson per la realizzazione di un film tratto da uno di questi, La meravigliosa storia di Henry Sugar. Il progetto ha cambiato forma e il film inizialmente annunciato ha assunto le fattezze di un cortometraggio, entrando a far parte di una serie che comprende: Il cigno, Il derattizzatore e Veleno. I quattro cortometraggi sono stati rilasciati in piattaforma tra il 27 e il 30 settembre, dopo la presentazione fuori concorso del primo di essi, Henry Sugar, alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Se da un lato qualcuno potrebbe non aver mai sentito il nome di Roald Dahl, dall’altro è praticamente impossibile che quel qualcuno non si sia mai imbattuto in uno dei suoi racconti o in una trasposizione di essi. Le opere di Dahl, infatti, hanno sempre trovato parecchia fortuna quando trasposte per il cinema. Per Wes Anderson l’incontro con lo scrittore britannico non è una novità ed è già avvenuto nel 2009 con Fantastic Mr. Fox. Ben più famosi sono gli adattamenti del romanzo La fabbrica di cioccolato, con il film del 1971 diretto da Mel Stuart che vede l’iconica interpretazione di Gene Wilder nei panni di Willy Wonka, seguito dalla pellicola del 2005 di Tim Burton con Johnny Depp protagonista; è in arrivo anche un prequel proprio nel 2023, Wonka, diretto da Paul King e con Timothée Chalamet nei panni del protagonista. Basti poi pensare ad altri film tratti dai lavori di Roald Dahl, come Matilda 6 mitica (1996) di Danny De Vito e Il GGG (2016) di Steven Spielberg, preceduto da una versione animata del 1989 diretta da Brian Cosgrove.

La meravigliosa storia di Henry Sugar

Il primo dei quattro cortometraggi rilasciati da Netflix, La meravigliosa storia di Henry Sugar, è anche quello dalla durata maggiore, con un minutaggio di 39 minuti. Henry Sugar, un ricco giocatore d’azzardo, scopre la storia di un guru indiano che ha acquisito la capacità di vedere con gli occhi chiusi ed è pronto a impegnarsi per imparare e sfruttare la nuova competenza al casinò.

Il corto in questione rappresenta il concetto di audiolibro (o cinelibro) per Wes Anderson, o ciò che accade nella testa di un visionario durante la lettura. O la lettura collettiva di un racconto, in presenza dell’autore stesso, magari. Henry Sugar è tutto questo: Anderson si dimostra tanto affascinato non solo dai mondi narrati da Dahl, ma anche dal modo in cui essi vengono descritti. Tanto che nella trasposizione dal libro alla sceneggiatura Wes non cambia una virgola, e decide di mettere in scena proprio Roald Dahl in carne e ossa (interpretato da Ralph Fiennes) come narratore. Narratore e personaggi si confondono nella scena e i personaggi diventano a loro volta narratori, rivolgendosi freneticamente ora ai loro pari, ora agli spettatori. L’effetto prodotto da questa singolare scelta di messa in scena è a metà tra il farsesco e il comico, e per realizzare ciò Anderson rinuncia, come al solito, alla possibilità di illudere lo spettatore di trovarsi di fronte alla realtà, svelando costantemente la finzione della narrazione audiovisiva.

Altra peculiarità della messa in scena di Henry Sugar sta proprio nelle scenografie che prendono vita: cambiano costantemente forma e si adattano al racconto e agli spostamenti dei personaggi. Altre volte vengono proprio allestite da comparse in campo. Se da un lato questa componente rimanda alla tradizione teatrale, confermata dal modo in cui gli attori calcano la scena, dall’altro essa dialoga con il cinema delle origini. Come nel cinema cosiddetto delle attrazioni, Wes Anderson esibisce dei trucchi strabilianti ma con lo scopo di esibire la loro natura fittizia; adotta scenografie di cartone e fondali disegnati; fa ampio uso della retroproiezione.

La parte più interessante dell’intero lavoro sta nella destrutturazione della narrazione operata da Dahl nel racconto “fotocopiato” da Anderson. La struttura del racconto nel racconto non è sicuramente nuova ma in questo caso il dialogo tra le parti risulta particolarmente interessante e viene a creare motivi ricorrenti ed echi che percorrono l’intera rappresentazione. Quanto all’apporto di Wes Anderson, il suo lavoro, come sempre, risulta grazioso, fin troppo interessante, tanto che l’effetto delle sue manipolazioni della materia filmica finisce con il disperdersi, sia per la quantità delle singolarità messe in campo dal regista, sia per la reiterazione di esse: dopo un poco l’antifona è ben nota anche per il meno attento tra gli spettatori e lo stupore iniziale si trasforma in noia. Le regole del gioco sono ben chiare ma il gioco dura anche troppo, nonostante si tratti di un cortometraggio.

Di tutto si può dubitare tranne che dei cast mega-stellari dei lavori di Wes Anderson, capitanato in questo caso da Benedict Cumberbatch, Ralph Fiennes e Ben Kingsley, mentre la resa visiva del film, come al solito, riesce a creare dei quadri stupefacenti. Ma finisce lì. Ancora una volta il lavooi di Wes Anderson scivola via, dimenticato dopo qualche minuto dalla fine della visione.

Il cigno

Nel secondo cortometraggio Il cigno un piccolo “genio” deve fare i conti con le angherie di alcuni bulli più grandi e meno intelligenti di lui.

L’impostazione narrativa e della messa in scena è praticamente la stessa di Henry Sugar, quindi in gran parte vale quanto scritto nei paragrafi precedenti. Qua il senso di teatralità è ancora più forte e il risultato meno interessante, il cast meno stellare, le scenografie e la resa visiva meno impattanti. Il narratore, ancora una volta parte integrante del racconto, modula la propria voce per imitare quelle dei ragazzini, con l’utilizzo di pupazzi ben più interessante di quello presente in Henry Sugar. Nonostante le peculiarità citate, in questa occasione il senso di trovarsi di fronte a una rappresentazione destinata a un altro medium emerge con prepotenza. Nel precedente cortometraggio, nonostante le parole spese non fossero affatto lusinghiere, era ancora presente un piccolo guizzo capace di rendere la visione quantomeno non spiacevole. Ne Il cigno questo guizzo manca, forse perché il senso di già visto è ancora più intenso, e di conseguenza i 17 minuti di questo cortometraggio appaiono infinitamente più lunghi della durata del precedente, che di minuti ne contava più del doppio.

Il derattizzatore

Quando, dopo i primi due cortometraggi, tutto sembrava perduto, ecco arrivare Il derattizzatore. In poco meno di 20 minuti viene scandagliata la figura di un sinistro cacciatore di ratti, che si identifica nelle sue prede per superare la loro furbizia e, dunque, per neutralizzarle.

L’impostazione narrativa e l’idea alla base della messa in scena restano sempre le stesse dei lavori precedenti. Quel che cambia, in questo caso, è il peso attribuito ai singoli elementi messi in gioco, distribuiti in maniera più bilanciata, senza eccessi ridondanti. La formula di Henry Sugar e Il cigno, che è la stessa adottata ne Il derattizzatore, non diventa tutto a un tratto vincente, ma appare smussata nelle sue punte più spigolose e trova un’armonia impensabile prima. Ci troviamo comunque di fronte a un audiolibro à la Wes Anderson con tutte le problematicità già indicate, ma a fronte del piattume del precedente cortometraggio, qua si trova spazio anche per delle intuizioni parecchio centrate. Nonostante ci si trovi all’interno di una trasposizione audiovisiva di un racconto, i personaggi mimano la presenza di oggetti o animali evocati ma comunque invisibili. Poi, per una breve sequenza, un ratto inanimato prende vita grazie alla tecnica dello stop-motion e la potenza di queste immagini porta a chiedersi il perché questa cosa non fosse già avvenuta in precedenza

L’eccessiva teatralità, che faceva apparire Il cigno quasi fuori luogo nella scelta del medium cinematografico, viene meno. La scrittura di Roald Dahl è in questo caso più focalizzata sui dialoghi che su descrizioni infinite, scandendo un ritmo più vicino ai tempi del cinema. Le scenografie contribuiscono in questo senso, sono meno “interattive” delle precedenti, più statiche, permane sicuramente la loro natura teatrale, ma in maniera meno lampante. Da Henry Sugar invece tornano gli echi di un cinema del passato. L’uomo-ratto, interpretato da Ralph Fiennes, ha un aspetto che da sé costituisce metà della caratterizzazione del personaggio: la folta chioma grigia e spettinata, lo sguardo stralunato, le unghie lunghe e sozze. A restare impressi sono però i suoi due enormi incisivi centrali, che ricordano più quelli del Nosferatu interpretato da Klaus Kinski che quelli di Max Schreck. Del Nosferatu di Murnau invece torna il taglio espressionista delle luci e di certe inquadrature sghembe focalizzate sull’espressività dei volti, soprattutto nell’inquietante finale, in cui il sangue rosso intenso fa tornare in mente molti horror artigianali anni ‘60 e ‘70, compresi quelli italiani.

Veleno

L’inatteso trend positivo iniziato da Il derattizzatore continua sorprendentemente con Veleno, il quarto e ultimo cortometraggio della serie fin qui esaminata. La sinossi è tanto semplice quanto efficaci sono le soluzioni messe in campo per dare forma a questo racconto: un uomo si trova in estremo pericolo a causa di un serpente entrato sotto le coperte del suo letto, l’intervento di un dottore nel cuore della notte sarà necessario.

Giunti a questo punto, possiamo dare per scontato che chiunque abbia compreso la natura dell’operazione di Wes Anderson nel dar vita ai quattro racconti di Roald Dahl in questa operazione. L’accusa, per nulla infondata, che il più delle volte viene mossa a Wes Anderson, è relativa al fatto che la messa in scena dei suoi lavori raramente riesca ad andare oltre al grazioso, all’appagante, al decorativo, raramente riesca a riempirsi di contenuti e diventare significante. Ma pensare che la sfera del contenuto debba essere legata necessariamente a dei tematismi (o ancora peggio a dei “messaggi”) è un errore madornale. Il contenuto e la forma, nei lavori migliori, molto spesso coincidono

Veleno dà la sensazione di essere il più cinematografico tra i lavori posti in analisi, grazie a una scrittura che mette al primo posto la costruzione di una tensione costantemente in crescendo, che attiva dei meccanismi di suspense hitchcockiana pronta a esplodere in un finale quanto mai enigmatico. Frasi sussurrate, movimenti leggeri, Benedict Cumberbatch immobile e zuppo di sudore, tutto ciò lascia emergere la tensione. Il ritmo cavalca, le parole si accavallano e musica e luci concorrono a creare uno straniante effetto di inquietudine. Il climax raggiunto dagli altri cortometraggi non è neppure lontanamente comparabile a quello di Veleno. A rendere questo il corto più riuscito della serie, come nel precedente, è anche una durata consona agli obiettivi perseguiti, cosa che mancava in Henry Sugar, che faceva scadere l’interesse per certe soluzioni realizzative in un già visto sconfortante.

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Alessandro Corrao,
Redattore.