“Siamo tutti il prodotto di ciò che abbiamo visto nella vita”

Clint Eastwood 

Quando si prende in analisi la storia del cinema sono davvero molto poche le personalità che possano essere definite come “Giganti” della settima arte. Si possono citare, ad esempio, registi del calibro di Scorsese, Spielberg o Polanski, ovvero artisti che hanno segnato in modo indelebile il percorso e l’evolversi della cinematografia degli ultimi 50 anni. Così come è impossibile non considerare attori dello spessore di Al Pacino, Robert De Niro o Meryl Streep, figure che si sono affermate con merito nell’Olimpo dei migliori.

Tra tutti questi grandi, grandissimi artisti, non può mancare il nome di un cineasta che negli ultimi 60 anni ha, di fatto, scritto pagine importantissime della storia del cinema, un vero e proprio monumento di Hollywood, ovvero Clint Eastwood. La filmografia del regista californiano è costellata di capolavori come Gli Spietati (1992), I Ponti di Madison County (1995), Mystic River (2003), ma si può dire che abbia raggiunto il suo punto più alto e rappresentativo nella pellicola del 2008 Gran Torino.

Ma perché questo film può essere considerato la summa della poetica cinematografica di Eastwood?

Parlare in un singolo articolo di tutto ciò che rende questa pellicola una pietra miliare sarebbe un compito impossibile: dalla fotografia incredibile di Tom Stern, fino alla meravigliosa sceneggiatura di Nick Schenk, ogni parte che compone questo film concorre a renderlo un vero e proprio capolavoro. Ciò che, però, lo rende idealmente il testamento cinematografico di Eastwood, ovvero il perfetto riassunto della sua poetica, è il personaggio di Walt Kowalski.

Walt Kowalski rappresenta l’archetipo dell’eroe (o antieroe) eastwoodiano e racchiude in sé tutte le caratteristiche e le tematiche affrontate dal regista. In primis il protagonista di Gran Torino è un perfetto spaccato della società americana che vuole rappresentare: un uomo profondamente segnato dalla guerra in Corea e cresciuto in un contesto proletario, esperienze che lo hanno reso una persona rude, burbera e tutta d’un pezzo, una persona che custodisce il proprio M1 Garand come se fosse una reliquia, un’estensione del proprio corpo e che vede il mondo in bianco e nero, senza sfumature.

Il trauma della morte della moglie, inoltre, non fa altro che acuire il distacco tra Kowalski e tutto ciò che, metaforicamente e non, sta al di là del suo giardino. L’auto-emarginazione di Walt è una fattore fondamentale per comprendere il personaggio, in quanto è egli stesso a decidere di isolarsi e di allontanare tutte le persone che lo circondano, dalla sua famiglia fino alla comunità della quale fa parte, tagliando i ponti e i rapporti con tutte le persone che tentano di avvicinarsi a lui. Il disagio sociale del protagonista, dunque, nasce sì da fattori caratteriali, ma anche e soprattutto dal proprio vissuto: il rifiuto categorico all’integrazione che Walt si auto-impone è, sicuramente, scoria del trauma della guerra e di un passato che tormenta profondamente l’animo del protagonista.

Da qui nasce anche il mai nascosto pregiudizio che caratterizza Kowalski. Un pregiudizio che è in primis razziale, in quanto la comunità asiatica che popola ormai il suo quartiere rappresenta, per lui, il nemico combattuto in Corea e che sta ora letteralmente “invadendo” casa sua. Oltre a questo aspetto, però, il pregiudizio di Walt si manifesta e inquina tutti i rapporti umani che il protagonista si trova ad instaurare: le nuove generazioni, come ad esempio la giovane nipote o i figli stessi, vengono visti come fannulloni e incapaci, persone ormai rammollite e di gran lunga meno valorose rispetto agli uomini che hanno fatto la guerra come lui e, allo stesso modo, la Chiesa è per Kowalski una semplice superstizione per donne anziane che si fanno abbindolare da preti che non sanno nulla della vita e della morte.

Tutti questi presupposti, però, iniziano ad incrinarsi nel momento in cui Walt si trova, suo malgrado, a dover interagire con Thao, il giovane figlio della famiglia Hmong appena trasferita nel quartiere. Se inizialmente il personaggio di Eastwood si mostra duro, scontroso e distaccato, nel corso della pellicola si renderà conto che la famiglia che prima detestava in quanto “diversa”, non è poi così lontana da lui, fino al punto di sentirsi più compreso da loro che dai suoi stessi parenti.

Questo capovolgimento del mondo di Walt è inizialmente traumatico. Kowalski, infatti, cerca più volte di mantenere intatta la corazza di apatia nei confronti di Thao e della comunità Hmong, per rendersi conto di come poi, invece, tutte le sue barriere fatte di odio e di pregiudizio siano solamente un meccanismo di difesa, un modo per auto-isolarsi da tutto.

In questo senso il rapporto tra il giovane asiatico e il protagonista è un rapporto che si basa su piccoli dettagli, come ad esempio gli attrezzi prestati a Thao, oppure il lavoro che Walt riesce a procurare al ragazzo, fino ad arrivare al momento in cui il protagonista è disposto a concedere al suo giovane amico l’amatissima Gran Torino. Questa scena in particolare è fondamentale per comprendere la relazione tra i due e segna, forse, il vero momento in cui il protagonista si mette, metaforicamente, a nudo per la prima volta.

L’auto, infatti, può essere letta simbolicamente come una rappresentazione di Kowalski stesso: una bellissima macchina vintage, rimasta però chiusa in un garage troppo a lungo, custodita gelosamente in una dimensione privata e lontana da tutti e, rimettendola in strada, il protagonista riesce finalmente ad abbracciare una comunità, nella quale è pronto a sentirsi a casa di nuovo.

Il percorso di redenzione compiuto da Walt, quindi, si configura come un processo di accettazione del proprio passato, un processo nel quale egli riesce a fare pace con i demoni che lo tormentano e ad espiare il senso di colpa che lo attanaglia. Nel voler salvaguardare il nuovo contesto famigliare in cui si immerge, infatti, Kowalski trova il perdono che tanto a lungo ha cercato e che lo libera dal peso che lo ha oppresso per una vita intera. È interessante notare come questo perdono, in realtà, non arrivi dall’esterno, bensì da Walt stesso: la scena in cui il protagonista finalmente si confessa con il giovane prete dimostra che questa redenzione, così a lungo cercata, non venga da Dio o dalla comunità, ma dalla consapevolezza stessa del protagonista. Nel mettersi di fronte alla propria vita, il personaggio di Eastwood riesce a perdonarsi ed è finalmente pronto a morire, pronto ad immolarsi per proteggere la sua “nuova” famiglia.

Un’altra scena estremamente importante in questo senso è proprio la sequenza finale del film. Chiudendo Thao nel seminterrato e impedendogli di vendicarsi, Walt intende preservare la purezza e l’innocenza del suo giovane amico per evitare che anche lui debba vivere con il peso di aver ucciso, per evitare che anche la sua vita venga corrotta dal sangue con cui si macchierebbe le mani, lo stesso sangue che ha inquinato così a lungo la vita del protagonista.

Sacrificandosi per la comunità che lo ha accolto nel suo momento più buio, dunque, Kowalski chiude il suo percorso di redenzione, riuscendo ad abbandonare la zavorra di odio, di pregiudizio e di emarginazione che lo inchiodava al suo dramma interiore e lasciando, come ultima volontà, la magnifica Gran Torino al giovane Thao, riconosce a lui il merito di averlo salvato dalla vita miserabile in cui era incastrato, di aver distrutto la corazza indossata ormai da troppi anni, regalando metaforicamente tutto sé stesso in eredità all’unica persona che abbia saputo conoscerlo veramente nel profondo.

Questo articolo è stato scritto da:

Alessandro Catana, Redattore