White Noise
di Noah Baumbach
The Kingdom: Exodus
di Lars Von Trier
“The Kingdom”, l’opera del regista danese nata nel 1994 sulle orme di “Twin Peaks”, tornando come quest’ultima dopo più di 20 anni trova così ancora più punti di contatto: Trier, come ha fatto Lynch con il suo capolavoro “Twin Peaks – Il Ritorno”, riflette tanto sul suo cinema quanto sul suo stesso materiale di partenza ma – al contrario di Lynch – riafferma la possibilità di poter ancora, nel 2022, fare quel tipo di cinema (che poco in comune ha con la televisione, nonostante sia stata – e sarà – distribuita a episodi). E allora mai come per “Riget – Exodus” ci si trova di fronte a un metacinema in cui l’autore diventa il perno, il nucleo, il cuore e le fondamenta sia della trama che della sua creazione.
Si può ancora decostruire l’impianto soap-operistico del medical drama, le profonde lacerazioni storiche fra Svezia e Danimarca (“Feccia danese!”) sono ancora aperte, il male originario si sta ancora propagando nell’ospedale, ma il regista danese è ben al passo anche con la contemporaneità e la decostruzione non può non attraversare anche i sintomi della società odierna, come la ribalta del femminile.
Speriamo vivamente che non sia l’opera testamentaria di Lars Von Trier, anche se lo scorrere dei titoli di coda al termine dell’ultima puntata, senza più nemmeno l’ombra del regista davanti all’inquadratura, è molto eloquente…
Bardo
di Alejandro Gonzalez Inarritu
Princess
di Roberto De Paoli
Un Couple
di Frederick Wiseman
Davvero basta il fruscio delle foglie, l’acqua che si infrange sulle scogliere e Nathalie Boutefeu che legge per 60 minuti le lettere di Sofia (moglie di Leo Tolstoj) per meritare il concorso di un film a Venezia? La sensazione che si tratti soltanto del compenso che doveva essere dato al regista Wiseman, ormai 93enne, è molto concreta.
Bones and All
di Luca Guadagnino
In “Bones And All”, Luca Guadagnino torna a descrivere una generazione di adolescenti sfruttando il road movie, l’horror e gli emarginati dell’America ottantina: se in “Chiamami col tuo nome” i sensi, gli odori, le sensazioni intangibili erano un puro idillio estivo e i corpi velluto da carezzare e baciare, ora i sensi diventano una maledizione, i cannibali si riconoscono dall’odore e i corpi sono carne da macello. Come poter crescere sapendo che “l’amore non accetta i mostri?”. Non resta che scoprirlo in questo altro grande film di uno dei maggiori cantori dell’adolescenza.
Athena
di Romain Gravas
C’è chi ha definito “politicamente ambiguo” lo schizofrenico “Athena” di Romain Gavras (figlio del più famoso Costa Gavras), ma la verità è che il film non pretende di schierarsi da una fazione o descrivere le motivazioni di una guerra civile: il film – attraverso i suoi sontuosi e funambolici piani sequenza assieme ad intrecci da tragedia greca, oltre all’unità di luogo e di tempo – ci sbatte in faccia come in un microcosmo come il quartiere “Athena” si possano nascondere i prodromi di una guerra civile che imperverserà là fuori, perchè il dolore umano e la violenza ceca che ne deriva sono sempre terreno fertile per scontri su più larga scala.
Aru Otoko (A Man)
di Kei Ishikawa
“Aru Otoko” di Kei Ishikawa è l’equivalente di “Cure” di Kiyoshi Kurosawa se fosse stato girato da Hirokazu Kore’eda: cosa costruisce un’identità? Cosa rende autentico un legame familiare? Un film che invece che dare risposte pone solo più domande: cosa sempre più rara nel cinema contemporaneo.
All the Beauty and the Bloodshed
di Laura Patrice
L’arte come strumento (e infine anche posto fisico) di protesta e giustizia sociali, oltre che come mezzo di emancipazione. Che grande discorso sull’immagine, sull’arte e sul mezzo filmico (ma anche sul Cinema con la “C” maiuscola: comparirà anche John Waters) questo di Laura Poitras, dove più che a un documentario assistiamo a una collezione di diapositive o un video-album da sfogliare: in un viaggio in cui Nan Goldin ci guida fra scatti intimisti e sue collezioni – come “la ballata della dipendenza sessuale” o “memoria perduta” -, ci viene sbattuta in faccia “tutta la bellezza e lo spargimento di sangue” della sua vita e della lotta contro la famiglia Sackler per l’epidemia di oppioidi che ha scatenato negli USA. Per un finale umanamente tragico ma che lascia un barlume di speranza per la (ri)affermazione dell’arte come nido e oasi di giustizia sociale.
The Whale
di Darren Aronofsky
Con l’attesissimo “The Whale”, Darren Aronofsky torna manipolare lo spettatore come già fece con “Requiem for a dream”: il corpo di Brendan Fraser che per la sua immensa mole assomiglia incredibilmente ai freak di “Taxidermia”, è miseramente sfruttato perché lo spettatore ne rimanga impietosito e non si soffermi su una sceneggiatura eufemisticamente banale, con una sottotesto cattolico (che diventerà esplicito sul finale) abbastanza sconclusionato. Potrebbe ricordare “La grande abbuffata” per i corpi che fagocitano cibo irrefrenabilmente o “The Elephant Man” per il lavoro operato su di un freak (oltre che per un finale visivamente simile), ma la verità è che in “The Whale” non si trova né il discorso sociale di Ferreri né il legame fra mostruoso e società del capolavoro di Lynch. Il corpo di Fraser (ingrassato oltremisura ma comunque aumentato di dimensioni dalla prostetica) è inserito in un impianto teatrale dove passano la figlia, la moglie e un apparente e misterioso predicatore, ma la sceneggiatura non si sforza di dare profondità ad alcun personaggio per lasciare spazio al lavoro registico e il suo inquadrare da ogni anfratto e incorniciando in 4:3 il freak-Faser, dispiace solo che si tratti di un operato manipolatorio, atto a irradiare un senso di sconvolgimento che si esaurirà assieme all’ultima inquadratura del film.
Monica
di Andrea Pallaoro
“Monica” è una bravissima e bellissima Trace Lysette, donna di cui non vediamo nulla del passato, sappiamo che sta riallacciando i rapporti con la famiglia e non sapremo nulla del sul futuro. Quello che vediamo sono delle bellissime immagini ingabbiate in un 4:3 che vorrebbe renderle dei quadri in movimento, peccato che quel che resta in mano allo spettatore sia una storia mai partita ma sempre sul procinto di ingranare. Una completezza estetica che si esaurisce in sé stessa e che pur essendo manifestamente partorita dal profondo del cuore del regista, non arriva mai dritto al quello dello spettatore. Un peccato.
Love Life
di Kôji Fukada
“Love Life”, il titolo dell’ultimo film di Koji Fukada, è un appello a noi spettatori e all’umanità tutta, un grido disperato ma sommesso di appello alla vita. Quella vita fatta di affetti e relazioni che con invidiabile minuzia il film esamina e ispeziona come nei migliori film di Kore’eda, prima distruggendo e poi ricomponendo il significato di famiglia e di amore. Fukada è un maestro nel lasciare spazio ai personaggi suggerendoci la solitudine di ciascuno inquadrandoli sempre a distanza, come da dietro la tenda in una delle sequenze più strazianti: amate la vita, perchè quando moriremo saremo tutti soli.
Questo articolo è stato scritto da:
Scrivi un commento