THE HANGING SUN di GIUSEPPE TREPICCIONE
L’adattamento del romanzo ‘Sole di mezzanotte’ di Jo Nesbø è un dramma scandinavo dei più classici, a partire dalla vicenda: un uomo silenzioso e cupo dal passato tormentato (qui interpretato da un Alessandro Borghi in parte) cerca la redenzione a partire dal legame con una madre e suo figlio. Il tutto sullo sfondo di un villaggio ai confini del mondo, in cui una comunità di persone è legata ai valori religiosi più che a quelli civili.
‘The hanging sun’ è poco originale, con un montaggio sommario che alterna passato e presente senza creare nessun collegamento tematico o stilistico tra i due, il ricorrere a ‘tipi’ ormai cristallizzatisi in questo tipo di produzione (il bambino precoce, la donna vittima di violenza che nasconde un lato oscuro, il padre religioso e autoritario -interpretato da Charles Dance-), dialoghi didascalici che a volte si sbilanciano nel ridicolo. Detto ciò, non è neppure tanto mal fatto da non meritare una visione: è un buon film per passare una serata di svago, una perfetta aggiunta per il catalogo di Sky e NOW.
CHIARA di SUSANNA NICCHIARELLI
Susanna Nicchiarelli torna ad affrontare le figure femminili storiche col suo ‘Chiara’, decidendo di dedicarsi, stavolta, ad un modello molto più ‘tradizionale’: Santa Chiara d’Assisi. Nel farlo decide di sottolineare l’elemento della sorellanza e della ribellione di questo personaggio, donna tra gli uomini.
Il punto forte del film è certamente la ricostruzione storica attenta: viene utilizzato il linguaggio dell’epoca, i costumi sono affidati ad un professionista quale Massimo Cantini Parrini, le scenografie utilizzate sono suggestive ed infine la colonna sonora è frutto di un lavoro del gruppo Anonima Frottolisti.
Tuttavia, nonostante ‘Chiara’ osi rispetto al classico film italiano, è innegabile che presenti dei difetti che ne minano la riuscita. In primis, la musica sopra citata per quanto suggestiva viene usata per degli ‘stacchetti’ musicali che rappresentano alcuni dei punti più imbarazzanti della pellicola. L’ispirazione dichiarata è ‘Jesus Christ Superstar’, ma al contrario che in quest’ultimo i numeri musicali non hanno una funzione narrativa né servono ad avvicinare la vicenda religiosa alla modernità. L’utilizzo del volgare, per quanto filologicamente interessante, crea spesso problemi: in alcuni punti la combinazione con l’audio non ben registrato rende difficile la comprensione. Non aiuta poi che la recitazione si mantenga spesso su toni quieti e dimessi (a capo di tutti Margherita Mazzuccato, che interpreta la protagonista in maniera monoespressiva). Non bastano la partecipazione in piccole parti di una accorata Carlotta Natoli e di un caricaturale Luigi Lo Cascio a ridare verve al tutto.
Gli spunti interessanti ci sono (la vicinanza tra donne, il desiderio di viaggiare, il trattamento da parte della Chiesa del femminile, le difficoltà che il titolo di ‘santa’ comporta…) ma restano appunto spunti, elementi in nuce che non vanno mai oltre la trattazione superficiale: il film sembra più interessato a restituirci immagini, icone della sua protagonista, piuttosto che la sua umanità.
A ‘Chiara’ comunque un merito va riconosciuto: ha osato, ed in una edizione così stantia di contenuti audaci in ambito italiano il solo aver tentato e fallito potrebbe valere più del non aver tentato affatto.
GLI ORSI NON ESISTONO di JAFAR PANAHI
Panahi, fra i maggiori esponenti della new wave iraniana e incarcerato lo scorso 12 luglio in quanto dissidente del regime, con “Gli orsi non esistono” dimostra di saper fondere alla perfezione l’aspetto urgentemente autobiografico con un mondo di finzione dove, attraverso la penna di Panahi, le atrocità vissute – e che tutt’ora sta vivendo e “scontando” – sulla sua pelle diventano oggetto di un più ampio discorso universalmente valido. Si parla di essere confinati nel proprio Paese, di non poter diffondere un certo materiale, del regime opprimente e soffocante: questo di Panahi è un immenso “j’accuse” dove “il regista con la macchina da presa” riprende la propria vita per riflettere e riflettersi. Colpisce a fondo l’ultima immagine del film in cui Panahi – che interpreta sé stesso – preme il freno della macchina appena prima di lasciare l’Iran, per restare e combattere: mai come in questo caso il gesto artistico diviene simulacro di un gesto politico e sociale.
Tutto questo si trova nell’ultimo spazio di libertà creativa del regista iraniano, prima di una lunga e ingiusta detenzione.
SICCITÀ di PAOLO VIRZÌ
Quest’anno la Mostra del cinema di Venezia sembra volerci abituare alla presenza, all’interno del proprio programma, di una certa categoria di film: i film brutti. ‘Siccità’ di Paolo Virzì entra a gambe tesa in questa categoria.
La premessa, anche interessante (e per certi versi profetica), riguarda una siccità che colpisce la capitale italiana da più di un anno. In questo contesto si muovono una serie di personaggi che, nella migliore tradizione delle commedie italiane corali, si legano, si incontrano e si scontrano, dando vita ad un cast corale che comprende nomi più o meno grandi (Silvio Orlando, Monica Bellucci, Valerio Mastandrea, Emanuela Fanelli, Claudia Pandolfi e Max Tortora per citarne solo alcuni) che affrontano il proprio ruolo con più o meno convinzione.
L’idea iniziale di affrontare le conseguenze sociologiche e personali in caso di un evento catastrofico viene sviluppata solo in parte. Infatti, da un certo punto in poi ‘Siccità’ si mette sui binari più convenzionali possibili della commedia italiana, affrontando gli stessi identici temi che ci vediamo rifilare da decenni: famiglia, tradimenti, coppie che si lasciano e si rimettono insieme, figli difficili, tutto terribilmente blando, terribilmente già visto.
Gli spunti interessanti legati alla crisi romana sarebbero anche interessanti, non fossero seppelliti sotto i drammi personali (e noiosi) dei personaggi e trattati con sufficienza e didascalismo che dimostrano la dissociazione del regista dalla realtà dei fatti. Risulta particolarmente offensivo, a due anni dall’inizio di una pandemia che ha innegabilmente creato un trauma nazionale, dare contro alla generazione dei giovani o sminuire le loro difficoltà e le loro rimostranze.
Il finale, poi, è il colpo di grazia: una risoluzione semplicistica, assolutamente non credibile alla situazione della siccità, che toglie la responsabilità a tutti i responsabili e un gran peso dalle spalle di chi doveva risolvere la situazione. L’idea che si possa glissare sopra un evento di tale portata e durata sperando che nella popolazione non ci siano forti traumi, o che questa sia la soluzione definitiva ad un evento complicato come la crisi ambientale sembra assolutamente ingenuo da parte di un team che ha effettivamente vissuto e che evidentemente fa riferimento ad una pandemia tuttora in corso.
OLTRE IL MURO di VAHID JALILVAND
Nell’edizione di Venezia in cui viene presentato “Gli orsi non esistono” del più famoso regista iraniano Jafar Panahi – incarcerato dal regime lo scorso luglio -, “Oltre il muro” di Vahid Jalilvand (così come “Senza di lei” di Arian Vazirdaftari) fungono da coerenti appendici di un necessario movimento di protesta che può e deve scuotere gli animi degli spettatori: sono questi i casi in cui i difetti – come uno sviluppo fin troppo monotono e poco avvincente – passano in secondo piano rispetto alla forza d’animo e allo spirito d’umanità dei protagonisti, per un popolo e un contesto in cui c’è follemente bisogno di ancore e simboli a cui aggrapparsi per riuscire ancora a smuovere le coscienze sociali.
Oltre il muro forse c’è ancora un barlume di speranza, quella che alberga dentro l’umano eroismo di ciascun cittadino.
THE SON di FLORIAN ZELLER
Se con “The Father”, il regista Florian Zeller era riuscito a piegare il dramma hollywoodiano a una personale e innovativa idea di cinema – con il suo impianto teatrale in cui la regia era al servizio dei cambiamenti di scenario, generati dall’alzheimer del personaggio interpretato da Anthony Hopkins -, verrebbe da chiedersi se dietro a “The Son” ci sia lo stesso regista.
Si resta nell’ambito di adattamenti di pièce teatrali, ma Zeller pare aver lasciato il Cinema chiuso nel cassetto: “The Son” è un melodramma hollywoodiano dei più schematici e stantii, dove la derivazione teatrale sembra sgorgare da ogni frame – e non è un bene – a partire dalla recitazione dei protagonisti, eufemisticamente impostata fino a tal punto da darci l’impressione di poter leggere anche noi il copione. A differenza di “The Father”, ora il regista sembra più preoccupato a cercare la lacrima del pubblico piuttosto che tentare di narrare una storia attraverso il cinema, con una regia che non cerca mai di dare quel contributo in più che necessiterebbe una storia tanto banale quanto già vista.
Oltre a grossi buchi di sceneggiatura (la prevedibile bastonata finale è causata da un gesto folle di uno dei protagonisti), la schematicità di “The son” rende impossibile qualsiasi gioco coi sentimenti, rifugiandosi in un cinema sterile e innocuo, monodirezionale nella scrittura e piatto di emozioni.
Una cocente delusione.
BLONDE di ANDREW DOMINIK
“Blonde”, più che un biopic, è un horror.
“Blonde” è la sequenza d’apertura di “Mulholland Drive” ma attraverso gli occhi di chi ha davvero vissuto gli onirismi lynchiani sulla sua pelle.
“Blonde” è la mercificazione divistica e al contempo la deflagrazione umana causate dalla forza prepotente e approfittatrice dei riflettori.
“Blonde” è la Norma Jeane dietro alle carni di Marilyn Monroe date in pasto al vanaglorioso star system.
“Blonde”, attraverso i suoi continui cambi di formato e di colori, è un’immensa riflessione anche sul mezzo cinematografico e sulle sue mille potenzialità, ancora non esauritesi e che mai dovranno farlo: sempre in bilico fra letale realtà e struggente finzione.
“Blonde” è la (ri)conferma che il biopic può ancora essere terreno fertile per veri e propri film d’autore quando chi dirige la macchina da presa è definibile tale: Andrew Dominik.
IL SIGNORE DELLE FORMICHE di GIANNI AMELIO
Dopo il suo ‘Hammamet’, dedicato ad una delle figure politiche più controverse dello scorso secolo, Gianni Amelio torna ad affrontare la storia del nostro paese, raccontando il primo processo per plagio svoltosi in Italia. Soggetto di tale processo l’intellettuale e mirmecologo (da qui il titolo) Aldo Braibanti, il quale fu denunciato dai genitori di uno studente maggiorenne con cui aveva avuto una relazione.
‘Il signore delle formiche’, ambientato nell’Italia degli anni ’60, ripercorre la vicenda di Braibanti in maniera molto libera, per stessa ammissione del regista (sulle differenze tra film e realtà sono già state scritte cose molto più interessanti e precise di quanto potrei fare io). L’intento è quello di utilizzare la storia del passato per commentare il nostro presente e le discriminazioni ancora subite dalla comunità LGBTQ+. ‘Se dovete fare proteste, protestate per il Vietnam!’, dice uno dei personaggi agli studenti accampati davanti al tribunale dove si svolge il processo, richiamando una retorica populista che abbiamo incontrato spesso negli ultimi anni. A questa si uniscono, sia nella finzione del film sia nella nostra realtà, la morale cristiano-cattolica e l’appello alla morale e al pudore.
La conseguenza è che purtroppo si incorre in una rappresentazione troppo netta dei personaggi della vicenda, estremamente buoni o estremamente cattivi a seconda della ‘fazione’ di appartenenza. Altro difetto della pellicola è che sembra incorrere in una delle ipocrisie che imputa ai giudici di Braibanti, ovvero il ricorso ad un pudore a parer mio eccessivo nella rappresentazione della relazione omosessuale dei protagonisti. L’omosessualità nel film viene rappresentata in termini relativamente innocenti, forse per non scontentare una fetta di pubblico che si vuole portare dalla propria parte, oppure in una forma estremamente stereotipata che, però, Braibanti si affretta a rifiutare, mettendo subito in chiaro di essere ‘diverso’ dai suoi amici omosessuali. La distinzione di diversi tipi di omosessualità e l’implicazione che l’una sia più valida di un’altra (e quindi più degna di essere accettata?) è un elemento disturbante in un’opera che vorrebbe essere simpatetica verso la comunità.
Spesso la recitazione degli attori va in over the top, con situazioni drammatiche e conflitti che si creano dal nulla. Nonostante ciò, ci sono interpretazioni degne di nota. Luigi Lo Cascio nella parte di Braibanti dimostra un controllo e una padronanza intellettuale ammirevoli, ed è probabilmente avviato al David di Donatello. Elio Germano svolge il ruolo inventato di un giornalista in fin dei conti inutile ma nondimeno simpatetico, un’aggiunta che dà colore alla situazione (anche se la sua introduzione spezza in maniera abbastanza netta il film in due parti distinte). Infine, l’esordiente Leonardo Maltese nella parte di Ettore, l’amante di Braibanti, brilla nelle sezioni successive alla scoperta della relazione col professore. Molto notevole in particolar modo la scena della sua deposizione in tribunale, che Amelio intelligentemente decide di riprendere in un piano sequenza tutto concentrato sul volto del personaggio.
Nonostante i difetti, ‘Il signore delle formiche’ presenta comunque elementi di interesse che possono valere la visione. Forse, visto il forte didascalismo e la sua natura innocua, tra qualche anno lo troveremo tra i film mostrati a scuola per introdurre gli alunni a determinati argomenti e sensibilizzarli su certe tematiche. Ma in fondo esistono destini peggiori.
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