Quella che leggerete non è una vera e propria recensione, quanto piuttosto un commento a caldo sul film visto al Lido dal nostro vicedirettore Jacopo Barbero.

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In È stata la mano di Dio Paolo Sorrentino racconta la sua giovinezza e la sua Napoli, mettendo in scena la storia di Fabietto, liceale silenzioso e ossessionato da Diego Armando Maradona, e della sua famiglia. Tenero e tragico, divertente e commovente, il nuovo film del regista napoletano è il suo più intimo: non ci sono “trucchi”, per citare Jep Gambardella. È un film di sincerità disarmante, lontanissimo dal barocchismo del suo cinema recente, quasi privo di musica e di picchi emotivi. Il film non travolge lo spettatore, lo coinvolge a poco a poco ed emoziona per la capacità straordinaria di Sorrentino di raccontare la sua storia senza orpelli, senza facili sentimentalismi, trattenendo tutto l’eccesso. Naturalmente lo stile non è mai realista, nonostante la mirevole ricostruzione storica degli anni ’80, bensì del tutto soggettivo: Sorrentino mette in scena la sua realtà giovanile, esaltando tutti i colori di quella “Napule” di cui canta Pino Daniele sui titoli di coda, e racconta l’umanità protagonista della propria memoria, che ha condizionato il suo immaginario e anima il suo cinema. È stata la mano di Dio è l’opera di un regista in totale controllo dei propri mezzi espressivi e del proprio universo narrativo.

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Questo articolo è stato scritto da:

Jacopo Barbero, Vicedirettore