La concezione dell’arte nel corso dei secoli ha assunto diverse accezioni: quando nel ‘600 inizia a diffondersi la pratica del collezionismo, e di conseguenza l’acquisto e la vendita di opere, si fissano i presupposti per vere e proprie operazioni commerciali, ancor più evidenti e definite dal secolo scorso.
Velvet Buzzsaw, l’ultimo film di Dan Gilroy del febbraio del 2019 (reperibile su Netflix), racconta la storia di un mercato dell’arte i cui protagonisti sono importanti personaggi inseriti nel settore, che si muovono tra conoscenze e raccomandazioni e hanno come obiettivo la compravendita delle opere, regredite al ruolo di oggetti di scambio.
“Ci scriverò un articolo, quanto costa?”
“È molto più facile parlare di numeri che di arte.”
A seguito del ritrovamento di strani dipinti nell’appartamento di un uomo morto, Vetril Dease, che si scoprirà essere un pittore mai espostosi al pubblico. Il momento risulta essere fondamentale e simbolico dell’intero film: vediamo l’avanguardistico mondo delle gallerie entrare nella sporcizia di una casa abbandonata e provare fascino non tanto per le opere in sé quanto per i guadagni che ne si sarebbero ricavati.
È questa infatti la questione centrale. La sete di fama e soldi tuttavia dovrà scontrarsi con una sorta di Presenza legata ai quadri, per cui chiunque cercherà di approfittarne dovrà scontare conseguenze drammatiche. Jake Gyllenhaal interpreta un rinomato critico d’arte, Morf Vandewalt, che risulterà l’unica figura propriamente ancora legata a un amore per l’arte in sé e non del suo contesto.
“È la mia vita, e io ricerco una specie di spiritualità nei miei articoli.”
Sarà lui infatti a rendersi conto per primo del pericolo.
“Non lo faccio per vendicarmi di te, è l’arte di Dease, e chi di noi cerca di trarne profitto è in pericolo”
Il potere oscuro esercitato dai quadri del pittore morto sembra manifestarsi fin dalla loro prima esposizione pubblica, quando con uno splendido piano sequenza la macchina da presa ci porta, per un momento, ad osservare il mondo al contrario guardando attraverso un bicchiere pieno; come a sottolineare che da quella sera fatale, in cui ciò che si sarebbe dovuto evitare era stato compiuto, niente sarebbe stato più come prima.
Un’elegantissima Rene Russo interpreta Rhodora Haze, importante proprietaria di una galleria d’arte. Rhodora è un’ex anarchica -come racconta lei stessa- che in seguito ha imparato ad avere buon gusto. Con vaghi accenni ad un passato in un gruppo punk (i Velvet Buzzsaw) e il tentativo di diventare un’artista, sono chiari i presupposti per cui anche lei, come Morf, arriverà in ultima istanza a comprendere il vero significato della vicenda. Sembra che questo privilegio sia concesso solo a chi sia in grado di provare una vera passione, mentre tutti gli altri non riescono a spiegarsi la portata degli eventi.
Il film porta ad una riflessione estremamente attuale, in un periodo in cui ci interroga sullo statuto dell’arte e a tratti su una sua eventuale morte. Spinge a chiedersi dove si trovi il confine tra un semplice oggetto e un’opera, e invoca una rivolta spirituale, una rivendicazione di valori all’interno di un settore che per definirsi tale dovrebbe confrontarsi con l’individualità poetica di ogni prodotto artistico prima ancora che con la sua commercializzazione.
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