Con questo articolo continuiamo il nostro viaggio nell’arte di Van Gogh attraverso le rappresentazioni al cinema dello straordinario artista olandese. Clicca qui per leggere la prima parte.
Loving Vincent, il film del 2017, opera della pittrice polacca Dorota Kobiela e del regista inglese Hugh Welchman, costituisce una innovazione cinematografica incredibilmente creativa.
Si tratta del primo film interamente dipinto su tela, realizzato con la tecnica del “rotoscope”, per cui centoventicinque artisti hanno rielaborato immagini girate e le hanno trasformate in dipinti. Più di 5 anni di lavoro e 5,5 milioni di dollari sono stati necessari per raggiungere l’obiettivo.
Il risultato è stato un sorprendente oggetto indefinito tra film di animazione, film girato dal vivo e quadro. Le più celebri opere di Van Gogh prendono vita e si sviluppano, divenendo la scenografia viva della storia del loro autore.
In realtà Loving Vincent non parla della vita del pittore, ma narra vicende che partono dalla sua morte.
Il protagonista è Amand Roulin (interpretato da Douglas Booth), figlio del postino di fiducia di Van Gogh che ha il compito di consegnare a Theo, il fratello di Vincent, l’ultima lettera che quest’ultimo gli aveva scritto prima di morire. Nel corso del suo viaggio Amand si sentirà sempre più legato alla figura del pittore, conosciuta tramite i racconti degli altri, e cercherà di indagare sulla sua morte misteriosa per venirne a capo.
IL PRINCIPIO PITTORICO DELLE MACCHIE DI COLORE
Vi è un principio fondamentale del modo di stendere il colore che caratterizza l’arte dei post-impressionisti (come Van Gogh) e ha origine con l’impressionismo: non amalgamarlo in maniera omogenea e ben definita ma dipingere a “macchie”. Questa tecnica divenne poi la caratteristica più evidente del puntinismo e delle altre correnti pittoriche derivate.
L’idea, sviluppata in un periodo storico di attenzione alle scienze, era che se la fusione tra i colori non avveniva sulla tela la si poteva comunque realizzare all’interno dell’occhio umano, guardando il quadro dalla giusta distanza.
Così le opere di questo periodo giocano sulla percezione ottica degli spettatori, in un costante passaggio dalla dimensione della superficie della tela della macchia del colore e quella dell’immagine figurativa in profondità.
Loving Vincent riprende questo principio e lo esaspera poeticamente, aggiungendo il movimento alle due dimensioni sopracitate. Le immagini sembrano disperdersi nei colori e ritrovare una forma, quasi rappresentando quel flusso spirituale tanto caro a Van Gogh.
Nella sintesi ottica che avviene il tempo richiesto complessivamente aumenta, poiché non si tratta più di sintetizzare visivamente una singola figura, la quale una volta assunto il suo senso lo porta con sé; vi è qui una continua riformulazione e un continuo passaggio dalla bidimensionalità delle macchie prive di significato ad una profondità che narra una storia, che in un istante si disperde di nuovo.
La sfuggevolezza delle immagini è coerente con la vicenda trattata: non si conosce infatti una verità sicura sulla morte del pittore o su alcuni aspetti della sua vita, ma si hanno solo percezioni che sembrano presentarsi come certe per poi sfumare in un’altra realtà.
I più ritengono che Vincent si sia sparato, secondo alcuni il fatale colpo di pistola deve essere giunto da un altro, altri ancora preferiscono non pensarci proprio. Anche la presunta vita romantica del pittore è oggetto di discussioni sottoforma di pettegolezzi che costruiscono un quadro quanto mai incerto.
IL RITORNO DEL TEMA DEL SUBLIME
Diversi aspetti della storia della vita di Van Gogh nel suo rapporto con la natura fanno pensare alla presenza del tema del sublime legato alla sua figura. Nel film Van Gogh – sulla soglia dell’eternità (Julian Schnabel, 2018) sembra che ciò sia volutamente messo in evidenza. (abbiamo parlato di questo film nella prima parte della rassegna dedicata all’artista olandese, clicca qui per leggerlo).
Anche in Loving Vincent si possono cogliere riferimenti, in particolare nel finale, nella discussione tra Amand e suo padre.
“Guarda il cielo. C’è un mondo tutto da scoprire lassù. Qualcosa che possiamo guardare ma non comprendere del tutto. Mi ricorda Vincent.”
E il riecheggio delle parole del pittore:
“Non so spiegare perché, ma la vista delle stelle mi fa sempre sognare. Come mai mi chiedo, quei puntini luminosi nel cielo ci sono inaccessibili? Che sia necessario morire per raggiungere le stelle? E morire in pace in tarda età significa raggiungerle a piedi.”
Non è difficile cogliere una parvenza di riferimento al celebre “cielo stellato” kantiano, pari alla grandezza interiore dell’animo umano nella misura in cui in entrambi è presente il sovrasensibile ma pur esistendo in lui, esso è inaccessibile all’uomo. Seguire la morale significherebbe non discostarsi da un percorso che al termine della nostra vita ha come destinazione proprio il sovrasensibile.
Il legame tra Van Gogh e questo mondo superiore viene spesso ribadito in termini di una sensibilità assolutamente non comune, e per cui il pittore sarebbe stato considerato pazzo e pericoloso dai suoi concittadini.
L’ultima frase riportata sembra suggerire un bisogno di Vincent impossibile da rimandare, ossia distaccarsi definitivamente da un mondo a cui (sempre scegliendo di accettare questa interpretazione) non era mai realmente appartenuto.
Le ultime immagini del film sono il corollario di questi concetti. La nostra storia si chiude con una meravigliosa immagine del cielo stellato (Notte stellata, 1889) di Van Gogh che vede le singole macchie di pittura scomporsi e ricomporsi nell’autoritratto del pittore stesso.
Così Loving Vincent conclude la vicenda, aprendo contemporaneamente un nuovo mondo di sensazioni e riflessioni.
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