Con questo articolo iniziamo un viaggio nell’arte di Van Gogh attraverso le rappresentazioni al cinema dello straordinario artista olandese.
“Genio è colui attraverso il quale la natura dà la regola all’arte, che di per sé non può essere stabilita da regole”
La definizione di genio che Kant dà nella sua terza Critica si adatta benissimo a Vincent Van Gogh.
Il film del 2018 Van Gogh – Sulla soglia dell’eternità di Julian Schnabel vede Willem Dafoe interpretare il pittore olandese, regalandoci una performance in cui l’attore riesce a cogliere perfettamente l’aspetto istintivo e spiritualistico che caratterizzò la vita dell’artista.
La narrazione inizia col soggiorno di Van Gogh a Parigi subito prima di recarsi ad Arles, nel sud della Francia, spinto dall’esigenza di sentirsi più vicino alla natura. Qui vive una vita semplice ma permeata da emozioni forti, fino a giungere all’evento cardine del taglio dell’orecchio ed in seguito al trasferimento in un ospedale psichiatrico e, quindi, alla morte.
Nella resa del racconto della sua vita l’accento viene posto sul fortissimo legame tra la pittura e l’esistenza di Van Gogh. Da questo dualismo si genera quella che potremmo definire una poetica, ossia una visione del mondo espressa artisticamente da un autore. Questo termine viene più frequentemente attribuito a scrittori o cineasti, potrebbe infatti sembrare assurdo riuscire a raccontare la propria concezione della vita e dell’esistenza solo tramite quadri. Eppure la grandezza di Van Gogh risiede proprio in questo, nell’essere riuscito a dare alla sua pittura la capacità di comunicare la propria poetica, la propria visione del mondo, solo coi tratti di un pennello.
E’ risaputo che egli fosse assolutamente un artista (e un uomo) poco convenzionale, nonostante il periodo di grande cambiamento che avveniva nel mondo della pittura (siamo infatti alla fine dell’800: gli impressionisti sono stati superati, ci si è separati da tempo dal realismo pittorico e i post-impressionisti sentono una forte esigenza di innovazione) la sua arte non venne capita. Lo stesso Gauguin in una scena del film gli dirà bruscamente che la sua “non è nemmeno pittura. Non stendi bene il colore, sembra una scultura di argilla, sei troppo veloce.”
A fronte di questi rimproveri, che quasi lo assimilano a uno scolaretto che deve ancora imparare a fare vera arte, Vincent sofferente può solo spiegare di non riuscire a fare altrimenti. E’ la sua arte, sta bene quando dipinge e per lui, il dipinto, deve e può essere solo un gesto netto.
Ma cosa lo spinge a sentire una passione così forte da non potervisi ribellare?
“Dentro di me c’è qualcosa, non so cosa sia. Vedo cose che nessun altro vede e questo mi spaventa, e ho paura di impazzire… ma poi dico a me stesso ‘farò vedere quello che vedo io ai miei fratelli umani che non riescono a vederlo. E’ un privilegio”
Il rapporto inscindibile tra arte, natura e religione viene così dichiarato. Van Gogh si sente una sorta di profeta, vuole mostrare agli altri uomini la maniera in cui lui vede il mondo, ma è come se tutto questo avvenisse non per sua volontà. Come se un Dio parlasse tramite lui, o se attraverso la sua propensione innata la natura desse la regola all’arte.
IL SUBLIME, LA NATURA
Sublime significa, letteralmente, “sotto il limite”. Indica, cioè, un punto molto alto, il limite di qualcosa di più grande di noi. Si può intendere anche come “soglia”, magari proprio come “soglia dell’eternità”.
Una scena chiave del film, da questo punto di vista, è quella in cui Van Gogh spiega come si sente davanti alla grandezza della natura.
“Quando mi trovo di fronte a una vasta pianura non vedo altro che l’eternità. Sono l’unico a vederla? L’esistenza non può non avere una ragione”
Da un punto di vita filosofico (siamo sempre con Kant) il sublime è un sentimento di attrazione e repulsione che viene suscitato in noi dalla natura, talmente grande da sembrarci infinita, e dall’inadeguatezza delle nostre facoltà conoscitive di apprendere la sua forma. Perché è ovvio che qualsiasi pianura o foresta o oceano abbia una forma, e quindi un inizio e una fine, ma la nostra dimensione microscopica di uomini ci impedisce di apprenderla, e quindi continuiamo a percepirla come fosse infinita. Ma riuscire a concepire qualcosa come infinito appartiene a una facoltà sovrasensibile che possediamo ma a cui non abbiamo accesso. Ne sentiamo la parvenza, e infatti l’animo si sente elevato nel giudicare, e proviamo un rispetto per l’infinito essendo nella posizione di esseri finiti.
Ma cosa si intende in questo caso con infinito?
Qui Kant usa questo termine per indicare il noumeno, la cosa in sé, di cui non possiamo conoscere nulla se non la rappresentazione fenomenica e il piacere che proviamo davanti al sublime è dato da una facoltà sovrasensibile che ci rendiamo conto esista (e sia in accordo con quanto stiamo guardando) proprio per l’inadeguatezza che proviamo.
Di conseguenza se si accetta questa interpretazione, andando a riprendere le parole di Van Gogh (quando mi trovo di fronte a una vasta pianura non vedo altro che l’eternità. Sono l’unico a vederla? L’esistenza non può non avere una ragione) egli sarebbe stato un ponte tra il mondo sensibile e quello sovrasensibile, un profeta. Sarebbe stato in grado di vedere il noumeno del mondo e lo avrebbe comunicato, sentendone una forte urgenza, ai suoi “fratelli uomini”, consapevole di essere l’unico a poter conoscere il sovrasensibile.
L’ultima parte della frase si può allo stesso modo ricondurre a questa lettura filosofica dell’arte di Van Gogh, poiché secondo Kant lo scopo della nostra esistenza sarebbe il bene raggiunto seguendo la morale, la quale apparterrebbe al mondo della ragione e del sovrasensibile.
La storia di uno dei pittori più originali e decisivi per lo sviluppo dell’arte nel corso del tempo non può non affascinare con la sua spontaneità e tenerezza nella completa sovrapposizione tra l’uomo e il pittore.
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