Volavano via i nostri compagni, volavano via appesi a una stella gialla, trascinati da un vento furioso. Avevano negli occhi il terrore. Volavano via gli uccelli, e non torneranno mai più. Si spegneva il sole e non comparivano più stelle. Solo nuvole nere, e il fuoco.
– Schlomo in Train de vie
Quando si parla di Shoah è estremamente difficile riuscire ad affrontare l’argomento con leggerezza, eppure Train de vie (trd. Un treno per vivere) è una delle pochissime pellicole in grado di raccontare la tematica più tragica della storia umana con ironia, tipicamente yiddish, e al tempo stesso rispetto. A differenza de La vita è bella di Roberto Benigni, Train de vie utilizza le immagini simboliche dell’Olocausto in chiave umoristica, non rendendole degli stereotipi, ma riattualizzandole, interrogandole e dando loro ulteriore spessore. Questo perché Train de Vie non è solo un film sulla Shoah, ma è prima di tutto un film sul folklore, sulle minoranze (ebraiche e zingare), sulle tradizioni, sulla verità e sulla falsità, sulla memoria, e anche sul potere e l’ideologia quali strumenti di disumanizzazione se portati all’estremo. E’ una pellicola sugli esseri umani ed è un film che si interroga sull’uomo e sulla sua esistenza.
Train de Vie è un film del 1993 diretto dal regista franco-romeno Radu Mihăileanu. E’ una perla che racconta la folle avventura di uno Shtetl (trd. Un villaggio ebraico) nell’Europa dell’Est che, nel 1941, per sfuggire alla deportazione nazista mette in scena una finta deportazione verso la Palestina con tanto di treno, di finti nazisti – interpretati dagli ebrei in grado di parlare tedesco senza accento yiddish– e di finti deportati, composti dal restante del villaggio. Ogni abitante è chiamato ad interpretare una parte in un gioco tragicomico che mescola verità e falsità, pazzia e razionalità.
Nel corso del viaggio, tra timori e speranze, il villaggio si ritrova ad affrontare numerosi controlli delle truppe tedesche insospettite dal loro “treno fantasma”, ma anche conflitti all’interno dei vagoni tra ebrei-comunisti ed ebrei-nazisti e problematiche grottesche legate alla sopravvivenza. Malgrado le difficoltà lo Shtetl riesce sempre a cavarsela nei modi più improbabili e sgangherati.
La mente dietro l’operazione è Schlomo, il matto del villaggio, il quale paradossalmente è il personaggio più lucido e umano di tutti. Un uomo che ha scelto di fare il matto perché la parte del rabbino era già stata occupata. Un uomo che a fine pellicola scopriremo averci raccontato una bellissima storia di speranza. Una storia “quasi vera”.
IL RIBALTAMENTO DELL’IMMAGINARIO DELLA SHOAH
Signore del mondo, non ho mai pensato che saremmo arrivati tutti, ma fa che almeno i bambini e i giovani possano passare la frontiera e vivere in pace in Palestina. E anche gli uomini e le donne, i bambini, hanno bisogno di genitori… e visto che hai già salvato tutta questa gente, perché non salvi anche i vecchi? Che ti hanno fatto?
-Il rabbino in Train de Vie
All’interno della tematica dell’Olocausto il treno ha assunto un valore memoriale divenendo il simbolo delle deportazioni naziste. Milioni di ebrei, rom, zingari, sinti, omosessuali, disabili e dissidenti politici hanno trascorso infinite settimane stipati come bestie da macello nei vagoni di quei treni. In merito a ciò Elisa Springer, sopravvissuta ad Auschwitz, ha scritto nel suo libro di memorie:
Ci ritrovammo in trentasei su quel vagone: un pezzo di pane nero e un po’ di marmellata di barbabietole dovevano bastare per il viaggio e per la fame. […] Lungo le banchine della stazione, soldati tedeschi con il mitra in mano spintonavano poveri anziani che, curvi sotto il peso di valigie, di ceste enormi, procedevano più lentamente di altri. La confusione che regnava era tanta. Si urlavano nomi, le voci si intrecciavano, confondendosi: su tutte, risaltava il pianto dei bambini. Per molti di loro quel pianto sarebbe stato l’addio alla vita. Il convoglio si mosse lentamente verso una meta sconosciuta, portando con sé quel carico di sofferenza e dolore.
Per molti di loro la destinazione di quei viaggi era incerta, per la maggioranza sconosciuta. Ad alcuni erano giunte delle voci, altri fingevano o preferivano non ascoltarle. I nazisti ben se ne guardavano dal dire loro che sarebbero giunti ai lager o direttamente nelle camere a gas.
Le condizioni di estrema sofferenza patite in quei vagoni sono state il primo passo verso la disumanizzazione, successivamente sperimentata all’interno dei campi di concentramento dai sopravvissuti alle selezioni iniziali.
Nel caso di Train de Vie si resta sempre ai margini dell’orrore della Shoah, fatta eccezione per l’ultima inquadratura del film. Nella pellicola, tuttavia, le immagini dell’Olocausto vengono ribaltate: il treno, da simbolo dell’orrore e della deportazione, diviene speranza; la destinazione, invece, è nota ed una sola: la Terra Promessa e dunque la salvezza.
La partenza nel film diviene un momento gioioso: donne, uomini, bambini si accalcano dinanzi al treno. Tutti vogliono salire e fanno a gara per entrare nei vagoni. In questo contesto il treno non è più solo un mezzo di spostamento o un simbolo di speranza, ma è anche un luogo fisico in cui si riproducono le dinamiche sociali del villaggio; anzi, il treno stesso è il villaggio poiché la vita dei finti deportati e dei finti nazisti continua in quei vagoni: i bambini studiano e giocano, il rabbino organizza momenti di preghiera, i giovani si innamorano, altri invece abbracciano l’ideologia comunista creando addirittura un soviet per ciascun vagone. Vi sono, tuttavia, anche dei momenti pregni di carica simbolica. In particolare la sequenza in cui Mordechai, incaricato di interpretare il nazista a capo del convoglio, intrattiene un dialogo con un vero nazista nel tentativo disperato di proseguire il viaggio. Durante la conversazione i veri nazisti tengono al guinzaglio dei cani che abbaiano ferocemente verso i vagoni. L’abbaiare dei cani è un altro dei simboli dei lager in quanto molti sopravvissuti hanno affermato di ricordare il freddo pungente e l’abbaiare dei cani al momento del loro arrivo al campo. Successivamente i cani sono impiegati in modo grottesco durante l’evasione sconclusionata dei comunisti ebrei, nonché finti-deportati. In poco tempo i fuggitivi vengono rintracciati dai finti-nazisti ebrei grazie al fiuto dei cani del villaggio che molti abitanti hanno deciso di portare con sé. La geniale idea è ancora una volta suggerita da Schlomo, il matto. Solamente al termine del film scopriremo perché Schlomo è così familiare con questa strategia di cattura.
Vi sono, inoltre, alcune scene all’interno dei vagoni che ricordano le immagini descritte dai sopravvissuti riguardo la “vita” quotidiana nei treni della morte: si vedono bambini che chiedono ripetutamente alle loro nonne quando arriveranno o se i nazisti li uccideranno o se la terra promessa è una sola, ma anche madri che raccontano loro favole per intrattenerli e anziani che pregano e supplicano di Dio di giungere sani e salvi. A queste immagini si accompagnano alcune inquadrature del treno in movimento che attraversa la notte e le distese rurali. Qui è il silenzio a regnare, spesso interrotto solamente dal rumore del treno a contatto con le rotaie e dalla musica evocativa del compositore Goran Bregovic. Sono brevi momenti in cui l’umorismo e la leggerezza sembrano lasciare spazio, per qualche istante, alla memoria e al rispetto di quel che molti vissero sulla loro pelle.
IL GIOCO DELLE PARTI
Mordechai: Freund-chaf-lische Beziehung…
Schmechl: Freund-schaft-li-che Beziehung!
Mordechai: Non ci riesco. Perché è così difficile? Eppure, somiglia molto allo yiddish. Capisco tutto.
Schmechl: Il tedesco è una lingua rigida, Mordechai, precisa e triste. Lo yiddish è una parodia del tedesco, con dentro l’umorismo. Allora quello che vi chiedo, per parlare perfettamente il tedesco e perdere il vostro accento yiddish, è togliere l’umorismo. Nient’altro.
Mordechai: I tedeschi lo sanno che facciamo la parodia della loro lingua? Non saranno in guerra per questo?
Il fulcro narrativo di Train de vie è la messa in scena organizzata dal villaggio per scappare alla reale deportazione. Non è la prima volta che nel cinema assistiamo ad una dinamica simile; già To Be or Not To Be di Ernst Lubitsch nel 1942 ha allestito un gioco delle parti fatto di travestimenti e inganni. La pellicola segue le vicende di una famosa compagnia teatrale polacca costretta a fingersi un gruppo di soldati tedeschi per salvare il proprio teatro e la Polonia. To Be or Not To Be è un film che combatte e critica la guerra con leggerezza, satira e comicità.; in Train de Vie, invece, non si tratta di combattere, ma di sopravvivere. Per fare ciò, a ogni abitante è stata affidata una parte specifica che è tenuto a recitare nel corso del viaggio per non dare nell’occhio e non farsi scoprire. Il più sfortunato è sicuramente Mordechai, costretto ad interpretare il capo nazista del convoglio. Su di lui ricade la responsabilità della riuscita dell’operazione, ma anche della sicurezza degli abitanti. Se il suo ruolo è finto, tuttavia, le sue responsabilità sono vere. Mordechai diventando Il Nazista viene da tutti considerato tale perché “essere nazisti è peccato”, anche solo per finta. In nome della sua parte Mordechai si impegna a prendere decisioni difficili come sacrificare due uomini del villaggio limitrofo per salvare la sua comunità. E’ obbligato a conversare con veri nazisti, a negoziare, ad affrontare la paura di essere scoperto e, soprattutto, ad assaggiare cosa significhi realmente il nazismo. In queste circostanze Mordechai dice cose terribili contro il proprio popolo in nome della credibilità finendo spesso per chiudersi nel proprio vagone in preda ai sensi di colpa, conscio di aver salvato la vita dei propri cari ma anche di essersi, forse, sentito un vero nazista per un istante. Il confine tra finzione e realtà sembra svanire in diversi momenti del film: Mordechai finisce spesso per immedesimarsi seriamente nel ruolo che gli è stato affidato; alcuni finti deportati acquisiscono una nuova parte divenendo comunisti; il rabbino e il matto invece si svelano essi stessi come parte. Questi ultimi due personaggi sono profondamente legati tra loro al punto da contagiarsi e mescolarsi a vicenda. Laddove il matto si esprime attraverso visioni in un linguaggio criptico e poetico, il rabbino è uno dei pochi a comprenderlo e a non sminuirlo. La loro natura di parti viene rivelata nel corso di un dialogo tra Schlomo e Mordechai:
Mordechai: Schlomo, perché sei tu il matto?
Schlomo: Per caso. Io volevo fare il rabbino, ma il posto era già preso. Visto che mancava il matto ho pensato: “fai il matto se no lo fanno loro.” Fallo al posto loro.
Questa scena in apparenza innocua svela, in realtà, il plot twist della pellicola, del quale, però, parleremo alla fine di questo articolo.
MEMORIA DI UN PAZZO: QUANDO IL FALSO È VERO E VICEVERSA
Bambina: Ma la terra è santa soltanto in un posto?
Nonna: No. Amore di nonna, la terra potrebbe essere santa in ogni posto, basterebbe volerlo. Così non sarebbe mai più lontana.
Arrivati alle ultime scene del film apprendiamo con sorpresa che i nostri amati personaggi non sono stati gli unici ad aver avuto questa brillante idea. Dopo un momento di terrore, gli abitanti dello Shtetl scoprono che il convoglio che gli viene incontro non è composto da veri nazisti, ma da finti-deportati zingari e da finti-nazisti zingari che, come loro, hanno inscenato una deportazione per sfuggire ai veri nazisti! Segue una scena di grande giubilo, in cui ebrei e zingari organizzano una festa ricca di colori e folklore, dove musica e tradizioni si mescolano in un concerto di lingue e suoni contrastanti, eppure stranamente armonici. Nonostante l’allegria del momento, si percepisce una nota di malinconia nell’aria. Ci troviamo dinanzi a due culture distanti tra loro, ma accomunate da una storia di emarginazione, di migrazione e di morte. La storia di due minoranze unite nell’esperienza tragica della deportazione, dei lager e dell’Olocausto.
L’ultima inquadratura del film fa cadere ogni nostra piccola certezza:
Arrivati in territorio sovietico, la maggior parte di noi rimase sposando la causa comunista. Altri andarono in Palestina, soprattutto gli zingari. Altri in India, soprattutto gli ebrei. Schtroul continuò il viaggio fino in Cina, dove divenne capostazione in una cittadina. Esther, la bella Esther, si stabilì in America dove ebbe tanti bambini, uno più bello dell’altro. Ecco la vera storia del mio “shtetl”.
È quasi vera.
Queste ultime parole di Schlomo sono un pugno nello stomaco, reso ancora più forte dall’immagine del nostro matto vestito con la divisa a strisce tipica dai lager. Alla fine di tutto scopriamo che il racconto è frutto dell’immaginazione di Schlomo. Non è altro che una storia meravigliosa da condividere con gli altri detenuti per aggrapparsi a qualcosa, per tirare avanti e per avere un po’ di speranza. Quella speranza carica di vita che i protagonisti del film hanno tenuta stretta a loro in ogni momento. Quella speranza che si accompagna spesso alla follia e che non a caso è raccontata dalle labbra di un matto che urla ai quattro venti correndo sui vagoni di un treno di deportati. A questo punto ci viene da pensare che forse quei deportati non erano tanto “finti”.
Vorrei concludere con una riflessione scaturita dal monologo più intenso e filosofico del film, pronunciato da Schlomo durante la zuffa tra ebrei-comunisti e ebrei- nazisti in merito all’esistenza di Dio. Mihaileanu sfrutta questa scena per mostrare gli effetti disumanizzanti dell’ideologia e del potere sull’individuo, ma non solo. Al centro della riflessione viene posto lo stesso concetto di umanità, fortemente rivalutato all’interno della vicenda dolorosa dell’Olocausto.
Dio esiste, Dio non esiste: che importanza ha? Vi siete mai chiesti se l’uomo esiste? Dio creò l’uomo a sua immagine… È bello: Schlomo a immagine di Dio. Ma chi l’ha scritta questa frase nella Torah? L’uomo. Non Dio, l’uomo. L’ha scritta senza modestia, paragonandosi a Dio. Dio forse ha creato l’uomo, ma l’uomo, l’uomo, il figlio di Dio, ha creato Dio solo per inventare se stesso. L’uomo ha scritto la Bibbia per paura di essere dimenticato, infischiandosene di Dio. Noi non amiamo e non preghiamo Dio, ma lo supplichiamo. Lo supplichiamo perché ci aiuti a tirare avanti: cosa ci importa di Dio per come è? Ci preoccupiamo solo di noi stessi. Allora la questione non è solo sapere se Dio esiste, ma se noi esistiamo.
La domanda che dobbiamo porci non è se Dio esiste, ma se l’uomo esiste. Ciò è esplicato ulteriormente dalle parole della madre di Yossi, il “capo” degli ebrei comunisti:
Sei cambiato figlio mio. Eri bello, amavi la gente, sognavi, avevi un Dio. Dove vai? È questo il comunismo? Sarei venuta con te in capo al mondo. Yossi, Yossi, mi Yossele… comunista va bene, ma torna uomo. Un uomo.
Questo articolo è stato scritto da:
Scrivi un commento