Kiss Kiss Bang Bang
Un bacio, una pistola e un insulso, intorpidito private eye dei sobborghi californiani – di rude pesantezza fin dal nome: Mike Hammer -, che sbarca il lunario con squallidi ricatti, usando l’amante-assistente come esca per gonzi. Un’affannata donna in fuga che chiede soccorso in strada, nuda sotto l’impermeabile, tra i fari delle auto in corsa nella notte. Un suadente e implacabile antagonista senza volto che cammina felpato in eleganti scarpe scamosciate. Un’occulta e bramata shining box all’ombra di un fitto intrigo politico e criminale, fino a un’accecante esplosione che polverizza codici e immaginario del noir tradizionale, dirottato al suo stremato e irreversibile punto di non ritorno (ben tre anni prima di L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958) di Orson Welles): queste le coordinate d’innesco e detonazione di una potente bomba di schegge visive e narrative, a orologeria scombussolata, come Kiss Me Deadly (1955) di Robert Aldrich.
Pulp fiction nucleare
Veloce, cinico e avvincente B-movie tratto dall’omonimo romanzo pulp-hard-boiled del ruvido Mickey Spillane (edito in Italia col titolo Bacio Mortale), radicalmente rovesciato nei suoi stilemi machisti e destrorsi, nella decostruzione dei caratteri e nello sferzante intento critico dalla geometrica e ricorsiva sceneggiatura di A.I. Bezzerides. Realizzato con poco più di quattrocentomila dollari e presto assurto all’aura di fulgido e anarchico capolavoro di rottura.
Dietro l’umanità desolata e le torbide spoglie di un’aggrovigliata e centrifuga detection story, spiattellata tra i resti delle ombre stilizzate del noir vecchia maniera e l’ariosa nitidezza vitrea e penetrante degli ambienti comfort del nuovo stile di vita americano, il film scoperchia – insieme al contenuto deflagrante della valigetta dall’aura luminescente (McGuffin poi sfruttato a ripetizione, dalla sci-fi comedy Repo Man – Il recuperatore (1984) ai detour postmoderni di Pulp Fiction, 1994) – la sordida degenerazione morale, il caos disordinato, gli umori acri e avvelenati e la persistente atmosfera malsana di isteria paranoica che a metà anni ’50, ben nascosti dall’abulia annoiata del benessere consumista, azzannavano il ventre molle e annichilito di un’America dispersa, svilita e svalutata.
Appena uscita – forse – dai dolorosi postumi del conflitto mondiale e dalla delirante deriva persecutoria del maccartismo – il Senatore-inquisitore si dimette nel gennaio del ’55 dalla commissione d’inchiesta sulle attività antiamericane, mentre il film di Aldrich esce a maggio -, ma ancora impantanata nelle spire della temuta catastrofe atomica, incubo tangibile quanto impalpabile, subdolamente inoculato nel più intimo tessuto delle relazioni sfibrate dal sospetto e dall’inganno imperversanti ad ogni livello. Un bacio e una pistola è una radiografia di questa crisi, di una nevrotica paralisi sociale e un disturbante senso di squilibrio e disorientamento. Un acuto e visionario science-fiction noir, che anticipa di un anno perfino L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel, nel suo angosciante spirito nichilista, teso sul baratro dell’estinzione terminale della razza umana irrimediabilmente corrotta.
Série Noire: Dal Falcone Maltese alla Bomba Atomica
La critica francese fu lesta ad acclamare Kiss Me Deadly in tempi non sospetti, grazie soprattutto alla penna illuminata dei giovani turchi dei Cahiers du Cinema, in testa François Truffaut, che eleggeva Kiss Me Deadly a “film americano più originale dai tempi di La signora di Shanghai di Orson Welles”. Tirando le somme dell’evoluzione del noir americano, nel saggio Panorama du film noir américain 1941 – 1953 – uscito nel 1955 proprio come il film di Aldrich, ritratto in una celebre foto in cui tra le mani stringe proprio il suddetto libro -, gli autori Raymond Borde e Etienne Chaumeton scrivono:
“Questo [Un bacio e una pistola] è il disperato rovescio della medaglia del film che quattordici anni prima ha inaugurato la serie di noir, Il Mistero del Falco (1941). Il tema è lo stesso: la ricerca di un tesoro, una statuetta o una cassaforte d’acciaio. L’eroe è lo stesso: un detective privato, al tempo stesso duro e vulnerabile, che adora bere pesante, fare a pugni, e che è la vittima designata dal destino di colei che rimarrà la sua controparte oggettiva: l’avida, desiderabile e frigida femmina. Ma tra il 1941 e il 1955, tra la vigilia di una guerra e l’avvento della società dei consumi, il tono è cambiato. Un violento lirismo ci getta in un mondo in manifesta decomposizione, governato da un vivere dissoluto e dalla brutalità; a questi intrighi di uomini selvaggi e smidollati, Aldrich offre la più radicale delle soluzioni: l’apocalisse nucleare.”
Non sapremmo riassumere meglio la rivoluzione concettuale e la cesura storica rappresentate da Kiss Me Deadly. Un’opera-epitaffio che si approssima, cupa e pessimista, verso un ineluttabile senso di perdizione alienata e funerea fine dei tempi, scatenando il brutale sconvolgimento estetico e stilistico di un genere all’epoca più che consolidato. Se è infatti vero che, nei termini di Paul Schrader, “il noir è una visione morale della vita basata sullo stile, capace di risolvere i conflitti in termini visivi e non tematici” (Notes on Film Noir, Film Comment, 1972), allora la colposa frantumazione prospettica di questo mondo in decadenza – oltre le diramazioni plurime e le piste accumulate dalla trama in un nodo gordiano che si stringe come un cappio intorno al collo di Hammer -, passa innanzitutto attraverso l’incrinatura formale dei pilastri che lo hanno tenuto in piedi.
Lost highways al crocevia della morte
Le dissonanti infrazioni di Aldrich al codice noir sono già evidenti nel brusco inizio in medias res, che ci catapulta immediatamente al centro dell’azione e del movimento (la donna che corre in strada), senza preamboli, flashback o indicazioni (stradali). Con i titoli di testa in reverse, al contrario, in scorrimento dal basso in alto, come una scritta proiettata a rovescio in uno specchio, a suggerire subito una lettura degli eventi in direzione inversa e non canonica, simbolo grafico di un film che percorre pericolosamente in senso di marcia opposto l’autostrada principale del genere (la donna in pericolo che si sbraccia tra le vetture in mezzo alla carreggiata) e lo induce a sbandare in testacoda (come accade alla Jaguar di Mike Hammer franata a bordo strada).
Una legge dello slittamento narrativo a cui si adegua anche l’inquadratura nel climax rivelatore: lo svelamento dell’identità del Dottor Soberin (fin lì misteriosa eminenza grigia) avviene proprio con un movimento di macchina a salire dal basso in alto, che da gambe e piedi passa a mostrarne finalmente corpo e volto a figura intera.
Un altro scarto significativo riguarda la particolare modulazione della voice over, tipico tratto distintivo del genere, ombroso timbro introduttivo della discesa nebbiosa e allucinata nel gorgo dell’intrigo noir. Qui è assente come filo conduttore degli eventi, non appartiene più al fumoso deliquio del protagonista o alla coscienza impersonale di un narratore onnisciente, ma proviene, intermittente e fuori campo (visivo), dalle ipnotiche dissertazioni dello sconosciuto assassino: una stentorea, calma e luciferina voce parziale in assenza, come quella di un imperturbabile e modernissimo villain bondiano alla Blofeld, che inietta sieri della verità mentre filosofeggia arguto di morti e resurrezioni, come un oscuro deus ex machina.
Riflessi in uno specchio (chiaro)scuro
Quasi avesse recepito in anticipo i dettami sugli orizzonti del quadro espressi dal John Ford spielberghiano di The Fabelmans, Aldrich installa una ripetuta dialettica alternata di angolazioni dal basso, distorsioni sghembe e oblique (il risveglio off focus di Mike in ospedale) e suggestive prospettive dall’alto: spesso con la figura di Hammer posta al centro di una rete di scale e ripide scalinate, ringhiere, ingressi e corridoi, linee di luci e ombre che sembrano avvinghiarlo in trappola, nei fiochi interni di abitazioni vittoriane e nascondigli striminziti in cui si annidano gli indiziati a cui fa visita (quasi sempre di notte).
Ma alle tipiche deformazioni prospettiche e al sapiente découpage derivati del classicismo noir (si veda l’uso di specchi, ombre, ellissi temporali, montaggio svelto e ansiogeno nella sequenza del pedinamento di Hammer sul marciapiede), il regista – coadiuvato dall’abbacinante nitore della fotografia di Ernest Laszlo – contrappone l’ampia e sinuosa spazialità in piena luce dell’appartamento borghese del detective, percorso più volte lateralmente da morbide panoramiche eye-level, incassate dietro arredi e oggetti del lezioso décor che svettano in primo piano (speculari alle lise calzamaglie stese nella frugale topaia del tenore fallito Carmen Trivago). In un arioso living room che pare un artefatto set televisivo, misto di eleganza classica, modernità tecnologica (i rulli della segreteria telefonica a muro) e quadri di espressionismo astratto (preciso fil rouge artistico della narrazione, dal dipinto con figura a braccia e gambe incrociate a X, nella camera da letto della vittima femminile – che anticipa il destino di Hammer legato mani e piedi al letto dai malavitosi – alla sortita di Mike tra le sale di una pinacoteca).
Traslocando la messinscena dalla canonica planimetria del noir – che notoriamente predilige diagonali scoscese, sviluppo verticale, taglienti luci a fessura negli uffici rabbuiati del private eye -, Aldrich immerge l’istintiva sgradevolezza di Hammer (complice un viscido e scontroso Ralph Meeker, che non fa nulla per smuovere l’empatia dello spettatore) nell’appiattimento orizzontale della sua ordinaria e patinata mediocrità domestica, che lo vede brancolare svogliato e pensoso su e giù – e a vuoto – per i corridoi di casa, o sdraiato in una inconcludente apatia.
Le fiamme del peccato (mortale), i cavalieri dell’apocalisse noir
Alla prosa grezza e sbrigativa di Spillane, Aldrich e Bezzerides – sostituito l’oggetto del contendere con uno spunto più originale (il ribollente crogiolo nucleare in luogo del banale mucchio di soldi e droga) – aggiungono un robusto sostrato di riferimenti alla mitologia: un sottotesto che ben si raccorda a una vicenda che intesse e cifra il suo enigma centrale (il misterioso “great whatsit” contenuto nella cassetta) intorno a una perversa rilettura moderna, scorata e disillusa della ricerca del Sacro Graal dislocata tra le losche arterie suburbane della California: un fosco anti-mito di strada decostruito nell’impatto brutale con la meschina incidenza del reale, un sordido poema criminal-cavalleresco di morbosa e sregolata avidità, con Hammer in vesti di rozzo e improbabile Galahad, inadeguato al ruolo e completamente soggiogato dagli eventi. Già nel precedente Singapore: intrigo internazionale (World for Ransom, 1954), prova generale della destrutturazione critica dell’idealismo dell’(anti)eroe noir perfezionata in Kiss Me Deadly, il detective protagonista era deriso per essere pietosamente unfit al ruolo del prode e irreprensibile cavaliere senza macchia. (“You shouldn’t play Galahad. You’re way out of character”).
Altri espliciti paralleli mitologici (citati dal mellifluo Dottor Soberin), sempre riversati sulla scatola misteriosa, sono impiegati per accrescere di sensi inediti le irresistibili pulsioni e l’azione ossessiva della tipica femme fatale doppiogiochista dell’universo noir, qui animata dal fervore di una curiosità irrazionale e trascendente – quasi in trance – ben lontana dal bieco calcolo manipolatore della comune dark lady: l’immagine – quasi da cripta gothic-horror alla Mario Bava, di Lily Carver/Gabrielle urlante e incenerita dalle poderose fiammate di luce, raduna in un unico archetipo il castigo divino conseguente all’apertura del Vaso di Pandora, e l’infrazione scopica della moglie di Lot nella Genesi (trasformata in una statua di sale per aver guardato Sodoma) e di chi incrocia lo sguardo di Medusa (finendo tramutato in pietra). Nell’atmosfera infernale e demoniaca del finale, la scritta “The End” compare senza catarsi ad avvertirci che, in un tripudio di luce abbagliante che rischiara un’ultima volta la spessa notte del noir, l’apocalisse è appena iniziata…
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