«Ti rivedrò ancora, fra venticinque anni. Ma intanto…»
L’autore di questa recensione sa che su Twin Peaks è stato scritto di tutto e di più. Ogni episodio, ogni ambientazione, ogni personaggio sono stati passati al vaglio da analisi critiche, accademiche, semiotiche e artistiche per sviscerare tutti i significati nascosti dietro l’opera di David Lynch e Mark Frost, che ha dato una nuova connotazione al medium televisivo, fino agli anni ‘90 ancora considerato fratellino minore e commerciale del cinema.
Al contrario, Twin Peaks – Il Ritorno non sembra essere riuscita a imporsi nello zeitgeist culturale e mediatico allo stesso modo, pur riscontrando un enorme successo di pubblico e critica. Questo fatto era tutto sommato inevitabile – semplicemente perché Twin Peaks è stato a suo tempo un fenomeno culturale e mediatico impossibile da replicare -, ma dall’altro non rende giustizia alle dimensioni di una serie, per certi versi, ancora più rivoluzionaria.
Chi scrive questa recensione considera d’altra parte Twin Peaks – Il Ritorno (uscita sul canale Showtime nel 2017) opera a sé stante e non solo terza stagione della serie andata in onda nel 1991, e di gran lunga superiore alle pur maggiormente riconosciute due stagioni iniziali.
IL LUNGO RITORNO A TWIN PEAKS
Twin Peaks – Il Ritorno demolisce fin da subito qualsiasi pretesa di logica narrativa che pure rivestiva, anche solo a livello superficiale, la prima serie. La serie inchioda fin da subito lo spettatore in un labirinto di analogie e metafore e, come la gabbia di vetro ripresa da numerose telecamere nel primo episodio, rivela fin da subito la sua natura meta-narrativa e riflessiva (compresa di inserzioni pubblicitarie, divagazioni, numeri musicali a conclusione di ogni episodio).
Non ha molto senso rintracciare la storia principale di Twin Peaks – Il Ritorno, perché non ce n’è una. O, per meglio dire, le storie sono tante, si intrecciano, si concludono e si disperdono nei modi più imprevedibili, tra frammenti narrativi senza sbocchi in cui tempo e spazio non sembrano avere una direzione precisa. Le vicende dell’agente speciale Dale Cooper (Kyle MacLachlan) riprendono da dove erano state interrotte, nella Loggia nera da cui deve cercare di evadere e in cui viene incaricato di riportare il suo Doppelgänger creato dalla nemesi BOB. Questa fuga incontra un brusco ostacolo quando Cooper viene dirottato e sostituisce un secondo sosia, l’agente assicurativo Dougie a Las Vegas, e trascorre gran parte degli episodi in uno stato di semi incoscienza. Il protagonista, l’eroe della serie, passa la maggior parte del tempo inerte e inconsapevole, spinto non dalle sue capacità ma dalla logica oscura della Loggia Nera, che si presenta sotto sprazzi di visioni. In questa disamina e decostruzione nel ruolo del protagonista (e del ruolo dell’essere umano nelle vicende della Vita) sta il cuore di un’opera che si presenta come parodia e presa in giro della tradizionale struttura narrativa.
Stavolta non c’è un solo mistero che traina l’attenzione dello spettatore per tutta la serie, com’era invece stato per l’omicidio di Laura Palmer quasi trent’anni prima: i misteri sono molti, le suggestioni ancora di più, le risposte poche. L’azione si sposta da New York a Las Vegas a Twin Peaks alla Loggia Nera e oltre, ritrovando personaggi nuovi e familiari alle prese con la quotidianità. Com’era stato nella prima serie, dietro l’apparenza confortante, i colori vivaci e i riti quotidiani della cittadina di Twin Peaks, si nascondono segreti e verità inconfessabili.
“HAI DA ACCENDERE?”
Così si arriva a quell’Episodio 8, un’opera all’interno dell’opera, un’odissea in bianco e nero racchiusa nell’odissea a colori vividi del resto della serie. Il primo test nucleare in New Mexico in cui BOB viene partorito; il Boscaiolo che uccide un disc jockey e fugge nella notte; la nascita della creatura metà rana e metà mosca; vignette inquietanti sparse nel deserto notturno: la genesi dell’universo di Twin Peaks è un microcosmo di Male e Caos, che infrange la rassicurante facciata di uno stereotipato e stucchevole American Way of Life. In questo episodio sta il cuore (oscuro) di Twin Peaks: lo sgretolamento di ogni logica e convenzione sociale di fronte ai nostri istinti più oscuri e primordiali.
Ed è per questo che, dopo l’estrema frammentazione di storie e personaggi, la risoluzione del caso di Laura Palmer, a lungo attesa, e il ripristino dell’ordine iniziale arrivano come un’oasi nel deserto, come un sospirato ritorno al rassicurante status quo… se non fosse che Il Ritorno si conclude bruscamente con un nuovo enigma, ancora più oscuro dei precedenti; stavolta, tuttavia, senza alcuna promessa di vederne una qualsiasi risoluzione. Un nuovo allontanamento dallo status quo, privo stavolta di una garanzia di ritorno.
“ ‘PURE HEROIN’ DAVID LYNCH”
Qual è, dunque, il segreto di Twin Peaks? Che di tutte le riflessioni possibili che possono scaturire dalla visione della serie (e dalla stessa analisi che avete appena letto), nessuna viene dettata in maniera esplicita dal racconto o dai personaggi. Le storie di vita quotidiana (e straordinaria) che circondano le vicende di Twin Peaks rendono difficile rintracciare un significato univoco alle vicende ma, come qualsiasi opera d’arte, ciascuno ne ricaverà un’impressione diversa: è dello spettatore il compito di dare un significato, del tutto personale, alla serie. Tuttavia ciò non la rende un’opera vuota, e questa analisi ha solo scalfito la superficie della rete di significati che questa serie offre.
Di sicuro non è una serie per tutti, e lo si dice senza alcun elitarismo: è una serie ostica e difficile da seguire, soprattutto se da una narrazione ci si aspetta prima di tutto chiarezza e coesione. Alcuni troveranno Il Ritorno un esercizio sterile e superfluo, una perdita di tempo; altri lo troveranno una fonte d’ispirazione continua, e una delle serie migliori degli ultimi anni; di sicuro, nessuno ne uscirà indifferente.
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