“Io sono nato nel cinema. Vi lavoravano ambedue i miei genitori. La mia vita, le mie letture, tutto quanto mi riguarda ha a che fare con il cinema. Perciò il cinema per me è la vita” (Sergio Leone)

Nonostante oggi Sergio Leone sia considerato all’unanimità tra i migliori registi della storia, durante la sua carriera – e soprattutto negli anni in cui girò le tre pellicole che compongono La trilogia del dollaro di cui oggi ci accingiamo a parlare (Per un pungo di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo) – il regista romano dovette affrontare aspri giudizi negativi da parte di numerosi critici internazionali. Leone venne accusato di aver snaturato il cinema Western (il cinema americano per eccellenza secondo il grande storico e critico cinematografico André Bazin), modificandone la struttura, le ambientazioni, la natura dei protagonisti e le loro caratteristiche peculiari. 

Tuttavia, i lavori di Sergio Leone non distrussero né mancarono di rispetto al cinema western classico, anzi, proprio grazie alle innovazioni che Leone mise in scena, questo genere riuscì a trovare un rinnovato successo. Prima dell’uscita di Per un pugno di dollari, infatti, il cinema Western statunitense stava attraversando una profonda crisi di pubblico e l’idea di Leone di “realizzare favole per adulti” andando a distruggere per poi ricomporre il mito classico del western ebbe un successo inimmaginabile. Nacque così un nuovo genere (o sottogenere, se preferite) definito, in senso dispregiativo, Spaghetti Western, quasi a voler rimarcare la non originalità di quelle opere dirette e prodotte nel Vecchio Continente in cui, con un senso di presunzione fuori dal comune secondo gli americani, venivano stravolti i dettami del genere nato negli Stati Uniti. 

Il successo dei film di Leone contribuì non tanto a far rinascere il genere western negli Stati Uniti da un punto di vista prettamente numerico (venivano prodotti soltanto una ventina di titoli all’anno) ma contribuì a rompere le catene che imprigionavano il genere in stilemi e dettami ormai superati e fermi da troppo tempo.

LA RIVOLUZIONE DEL GENERE

Le novità che il regista romano apportò al genere furono sia tematiche che stilistiche: Leone rivoluzionò il modo in cui i paesaggi, da sempre fondamentali per la narrativa western, venivano messi in scena. Lo schermo si riempì, dunque, di primissimi piani, di volti con sguardi intensi e minacciosi, senza  per questo rinunciare a dei campi lunghissimi in cui i protagonisti erano a malapena riconoscibili. 

Grazie al suo cinema vennero introdotti elementi di cui si fece successivamente largo uso in molte altre pellicole western: la frontiera arida del sud-ovest degli Stati Uniti, i messicani che sostituirono i nativi americani, un’attenzione quasi maniacale per gli effetti sonori e musicali in generale, la scenografia piene di cosiddette Leone Towns con l’immancabile saloon, la banca (chiaramente da rapinare), una strada arida o fangosa, ma soprattutto una platea di personaggi irascibili, brutti, grezzi, sporchi, deturparti nell’aspetto e nell’animo. 

Grazie alla Trilogia del dollaro anche l’accezione dell’eroe Western cambiò. Si passò dall’avere una figura quasi mitologica, con un importante senso morale (certo, una morale diversa da quella odierna…), avvolto da un alone quasi mistico che lo rendeva quasi leggendario agli occhi dello spettatore (oltre che a quelli dei personaggi secondari), all’eroe moderno incarnato da Clint Eastwood: una figura -ancora una volta- sicura di sé, praticamente invincibile grazie alla sua abilità con le pistole, a cui non mancano valori morali e soprattutto – qui sta la grande novità – un senso dell’ironia del tutto nuovo. L’eroe perfetto, quello definitivo, diventa dunque un personaggio che riesce a far coesistere il mito e l’ironia, andando così a creare un protagonista/divo apprezzato sia dagli spettatori più “conservatori” sia dalle nuove generazioni che si aspettavano qualcosa di diverso e innovativo. L’eroe senza nome della Trilogia del dollaro è “un nuovo stile di eroe”, come amava definirlo lo stesso Leone, un eroe che “ha fatto tutto quello che John Wayne non avrebbe mai fatto” (C. Frayling).

LE INFLUENZE 

Grazie al successo che la Trilogia del Dollaro ebbe anche negli Stati Uniti (dove i film uscirono in ritardo e tutti nel giro di poco più di un anno), il western statunitense ebbe un impulso e un incentivo a cambiare quei toni classici che avevano dominato fino ad allora le scene. Per fare un esempio abbastanza esplicativo, pensiamo a Sam Peckinpah, considerato uno dei più grandi registi western di sempre, che ringraziò Leone perché “senza di lui non avrebbe fatto i film che ha fatto”, non perché la poetica di Peckinpah fu influenzata dalla narrazione atipica di Sergio Leone, ma perché, più semplicemente, il successo economico e commerciale della Trilogia del dollaro convinsero i produttori d’Oltreoceano ad investire, ancora, in film western “differenti”.

Le influenze di Leone però non si limitano a far ripartire e rinnovare il genere Western. Il suo cinema fu di fondamentale importanza anche per i cosiddetti movie brats ovvero per quella generazione di cineasti che andò a formare la New Hollywood: John Milius, George Lucas, Steven Spielberg, Francis Ford Coppola, John Carpenter e Martin Scorsese iniziarono ad approcciarsi alla settima arte proprio in quel periodo e tutti loro ammetteranno di aver imparato più di una lezione guardando e studiando attentamente tutti i film di Sergio Leone (non solo la trilogia di cui parliamo, dunque). Per fare due esempi: George Lucas affermerà di essersi ispirato alla musica e alle immagini di C’era una volta il West durante il montaggio di Guerre Stellari, così come la sequenza iniziale del film di Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo contiene delle citazioni dirette all’estetica filmica di Leone.

Anche nei registi contemporanei è possibile notare l’influenza di Leone: se analizziamo le filmografie di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, ad esempio, noteremo diversi elementi riconducibili all’opera filmica del regista romano. Mentre il primo è, ormai notoriamente, un grandissimo fan di Leone (celeberrima è la frase che pronuncia sul set quando vuole un primissimo piano: “give me a Leone!”), il secondo ha ripreso alcuni tratti tipici dello stile Leoniano nei suoi due lungometraggi El mariachi e Desperado senza nemmeno essersi rifatto direttamente a Sergio Leone, ma ai film di George Miller (in particolare Interceptor e la saga di Mad Max). Tanto ampia fu l’eredità lasciata da Leone che, come dirà il critico Geoffrey Macnab: “Si può essere influenzati da lui senza nemmeno sapere da dove sia venuta la sua influenza”. 

Negli anni a venire gli statunitensi continuarono a chiedersi se Leone avesse ucciso il western o se lo avesse invece salvato. Per troppi anni molti critici (soprattutto d’Oltreoceano) faticarono a riconoscere il fondamentale apporto che il cinema di Leone ebbe sulla settima arte. Oggi, per nostra fortuna, non ci sono più dubbi: tutti concordano sul fatto che Leone sia stato uno dei più grandi cineasti della storia della settima arte.

LA TRILOGIA DEL DOLLARO

Per un pugno di dollari

Forse non tutti sanno che il primo western di Sergio Leone venne accusato di plagio, in quanto l’idea del film nacque, infatti, dopo la visione de La sfida del Samurai di Akira Kurosawa. Leone decise di riproporre la storia del film di Kurosawa in maniera praticamente identica, ma in salsa western. Bisogna però dire che il regista chiese alla casa di produzione di pagare i diritti al filmaker giapponese, nessuno però lo fece: tutti erano convinti che questo film non avrebbe avuto un grande successo e che nessuno si sarebbe accorto del plagio. Mai premonizione fu più sbagliata,  come scrisse lo studioso cinematografico Christopher Frayling, infatti, Per un pugno di dollari fu “un furto che ha avuto una vasta portata e conseguenze straordinariamente produttive.”

Il film venne girato tra Roma, Madrid e Almerìa in set “riciclati” da altre produzioni e con un budget davvero basso. Con questa pellicola il regista romano inaugurò anche la sua collaborazione con Ennio Morricone, uno dei più prolifici ed importanti musicisti e compositori del XX secolo. L’apporto di Ennio Morricone alla filmografia di Leone fu a dir poco fondamentale; non è possibile immaginare la stessa epicità e magniloquenza delle scene d’azione – e non solo – senza l’innovativa e trascendentale colonna sonora composta da Morricone, tant’è che Sergio Leone disse a più riprese che il musicista era il miglior sceneggiatore dei suoi film e che sarebbe stato impossibile per lui fare quello che ha fatto senza le musiche di Ennio sul set.

Un altro elemento che si ricollega a quello musicale è l’attenzione maniacale che Leone aveva per il sound design e che è fin da questo suo primo film piuttosto evidente. Non si può far a meno di notare con quanta cura vengono inseriti i rumori di contorno: in primis gli spari, certo, ma anche il rumore di passi, lo scatto di un fucile, il fruscio di un fiammifero che si accende, davvero qualsiasi suono diventa parte integrante della narrazione. 

Gran parte del successo che il film ebbe si deve senza dubbio al protagonista Clint Eastwood e all’alone di mistero che aleggia attorno al suo personaggio dall’inizio alla fine della pellicola. Non staremo qui a ripetere perché l’(anti)eroe incarnato da Eastwood sia stato rivoluzionario per il cinema western, ma è importante sapere che il film, inizialmente, sarebbe dovuto essere diverso. Secondo la sceneggiatura iniziale, infatti, sia l’incipit che il finale sarebbero dovuti essere più didascalici,  inserendo delle scene in cui spiegare meglio chi fosse il pistolero senza nome, mostrando, dunque, qualcosa in più allo spettatore che avrebbe rotto la magia e il senso di piacevole inquietudine che si nasconde dietro la figura misteriosa di Clint Eastwood. Secondo Leone, insomma, ci sarebbero state troppe spiegazioni e dato che il regista considerava questo il suo primo vero film personale, diede tutto sé stesso e si impose affinché la resa finale della pellicola fosse come lui se l’era immaginata. Molti raccontano come si aggirasse sul set vestito con poncho e cappello da cowboy (vestito come Clint Eastwood, insomma) dando indicazioni al giovane protagonista (che Leone ha avuto il merito di lanciare verso una carriera eccezionale) con un inglese maccheronico ripetendo Watch me, Clint e mimando quello che avrebbe dovuto fare il giovane statunitense. 

Quando il film uscì, nel 1964, la critica non lo accolse positivamente, mentre il pubblico, al contrario, lo amò. Era ora che venisse prodotto un western innovativo, che pur mantenendo molti elementi classici li ritoccava per creare un’opera allora unica, carica di scene violente mostrate allo spettatore con un’audacia e ferocia raramente vista prima a schermo, con una musica a dir poco straordinaria che si univa alla narrazione per immagini, con un nuovo tipo di antieroe. Rivoluzione, insomma: un nuovo modo di fare cinema in cui l’uso della violenza, in particolare, è considerato da molti l’intuizione più importante o quantomeno la più evidente. Qui, come in tutti i film della Trilogia, la morte ci appare come una fedele compagna di viaggio per i personaggi messi in scena, che perdono la vita con urla atroci, a causa di colpi di pistola il cui rumore stridulo provoca quasi fastidio allo spettatore, in cui il sangue -di un rosso acceso- non viene nascosto. Una violenza che rappresenta, per Leone, una necessità realistica.

I suoi film si compongono anche di un ritmo diverso da quello solito del western: i tempi ci appaiono dilatati, lenti; l’indugiare attento e scrupoloso sui volti e sugli sguardi dei personaggi, ma anche sugli oggetti che compongono la scenografia e i costumi degli attori ci portano ad immergerci all’interno di quella storia. Il risultato è un insieme di scene brevi che vanno a comporre delle sequenze dilatate grazie al sapiente montaggio.

Per qualche dollaro in più

Con il secondo capitolo di questa brillante trilogia, Sergio Leone si affermò come il ragazzo d’oro del cinema italiano: con un budget decisamente più alto rispetto al film precedente, riuscì ad innovare anche il suo cinema mantenendo tuttavia una stile a dir poco riconoscibile e portando a termine una pellicola che fu, ancora una volta, un successo incredibile di pubblico. 

L’idea di Leone era quella di fare una Trilogia Western con protagonista Clint Eastwood (badate bene: non lo stesso personaggio, ma lo stesso attore) ma si rese subito conto che se non avesse inserito (almeno) un elemento di novità all’interno dell’opera questa sarebbe potuta sembrare una copia del film precedente. Decise così di scritturare Lee Van Cleef, attore ormai non presente sugli schermi da diversi anni a causa di problemi dovuti all’alcol, che si prestava perfettamente per il ruolo del Colonnello Mortimer grazie al suo “ghigno penetrante”, appellativo con il quale lo stesso attore amava definirsi. La scelta di inserire di nuovo Clint Eastwood come protagonista (anche se qui forse sarebbe più corretto parlare di co-protagonista) dava allo spettatore la sensazione di rivedere lo stesso personaggio presente in Per un pugno di dollari, nonostante venisse messo subito in chiaro dal film stesso che si trattava di una persona diversa. Questa ambivalenza dà la possibilità allo spettatore sia di empatizzare col personaggio come se lo stesse vedendo per la seconda volta sullo schermo, sia di far crescere la curiosità per quelle differenze che, fin dall’inizio, “il monco” sembra avere con lo straniero senza nome della prima pellicola. 

Il rapporto di amore/odio tra i due protagonisti è ben definito e caratterizzato da uno scontro generazionale che porterà, alla fine, a quella che sembrerebbe essere l’inizio di un’amicizia (stroncata sul nascere: i due prenderanno strade diverse alla fine del film). Le motivazioni che guidano i due sono qui più complesse rispetto all’opera precedente: non solo soldi ma anche una vendetta personale per Mortimer e un senso di giustizia per il monco, che infatti non prende parte attiva al duello finale, di cui è soltanto spettatore e giudice. Infine non possiamo non citare la prova attoriale di Gian Maria Volonté, che qui, così anche come nel primo film, interpreta il villan della situazione. Volonté si conferma uno dei migliori attori di sempre del panorama italiano, riuscendo a dare vita ad un vero e proprio mostro che non si fa problemi ad uccidere a sangue freddo ma che è, allo stesso tempo, tormentato dal passato e dalle droghe. 

La colonna sonora è ancora una volta firmata da Ennio Morricone, che stavolta compone le musiche appositamente per il film. Oltre alla fantastica e incredibile colonna sonora legata all’orologio da taschino, che dà un ritmo e un senso di epica al duello finale inarrivabile, non possiamo non soffermarci sui titoli di testa del film. Dapprima una landa desolata, un cowboy in lontananza, qualche rumore che ci avverte della presenza di qualcuno al di qua della macchina da presa, poi finalmente lo sparo: il cowboy cade per terra esanime. Da qui in poi i titoli di testa, che sono letteralmente bersagliati da un fucile immaginario e che scorrono sulle note di Ennio Morricone. Un incipit meraviglioso.

Il buono, il brutto, il cattivo

Sergio Leone conclude la sua trilogia del dollaro con un film molto più imponente (sia per budget che per sceneggiatura e scenografie) rispetto ai precedenti. Per la prima volta la Storia – quella con la S maiuscola- entra prepotentemente nelle vicende dei nostri (stavolta tre) protagonisti. Il film si svolge infatti durante la guerra di secessione, un conflitto che viene rappresentato come elemento estraneo, carico di orrore e morte, mettendo in evidenza tutta la sua insensatezza e soprattutto senza mai prendere posizione: sia le compagini del Nord che quelle del Sud sono legate soltanto da un unico filo conduttore: la morte. Impossibile non pensare ad un parallelismo tra questa guerra (che rappresenta tutte le guerre) e quella che Leone aveva effettivamente vissuto nella sua infanzia, la Seconda Guerra Mondiale. 

In questo film la morte, che accompagna tutto il cinema di Leone, è al suo “massimo splendore”, e si unisce ad un’ironia (macabra e nera) che accompagna tutta la pellicola. I tre protagonisti in questo senso sono come osservatori esterni della morte e della guerra, che diventano parte attiva solo involontariamente e per uno scherzo del destino. Nella scena finale poi, la morte prende il sopravvento: non è un caso che l’ambientazione sia un cimitero, così come non è un caso che la cassa piena di oro sia contenuta dentro una tomba.

I tre personaggi sono perfettamente caratterizzati, e dimostrano di andare oltre agli ironici e iconici soprannomi che vengono loro assegnati fin dal titolo. Tra questi spicca soprattutto Tuco, interpretato da un grandissimo Eli Wallach, che si dimostra il personaggio più profondo e sfaccettato dell’intero film (inoltre, pronuncia quella che, a parere di chi scrive, è la battuta più bella della pellicola, l’ultima).

Il tentativo di voler ampliare il racconto può sembrare, se messo in relazione con gli altri due film della trilogia, riuscito solo in parte, in quanto la narrazione pare a tratti zoppicare come i soldati menomati che compaiono nelle scene di guerra, sottolineando ancora di più quella sensazione di tempo dilatato tipica del cinema di Leone. Tuttavia, questo film ha il merito di contenere quella che è, a parere di chi scrive, la migliore sequenza della storia del cinema, ovvero quella ambientata nel cimitero di Sad Hill. La disperata ricerca della tomba contenente l’oro, il montaggio serrato che si concentra sugli sguardi e sui dettagli dei tre protagonisti durante il Triello finale (qui vediamo l’apoteosi del principio dell’attesa presente in tutti i film di Leone, ovvero quella sospensione del tempo che sta tra l’annuncio dell’azione e la sua realizzazione), due tra le più belle colonne sonore mai composte nella storia della settima arte (L’estasi dell’oro e Il Triello), l’imprecazione finale di Tuco tagliata dal verso del coyote. Tutto perfetto.

IL MITO

“Ecco cosa ricordo di Sergio. La volontà costante di divenire migliore.” (Ennio Morricone)

Sergio Leone morì di infarto il 30 aprile 1989, mentre stava guardando, ironia della sorte, il film di Robert Wise dal titolo italiano Non voglio morire. 

In molti si sono chiesti come mai un regista che si fece le ossa sui set del cinema italiano neorealista e che crebbe e visse a Roma non avesse mai diretto un film puramente italiano. La risposta è semplice: il regista romano era attratto dal mito, dalle favole, dalle leggende. E quale migliore favola, per un ragazzino che vedeva negli Stati Uniti un altro mondo, quello della libertà e della liberazione, un mondo proibito dalla censura fascista, se non quella del mito americano? Nei film di Sergio Leone, nonostante non siano mai ambientati in Italia, è presente molto del suo vissuto personale e delle sue memorie di infanzia. Anche per questo, secondo il filosofo Jean Baudrillard, Sergio Leone è il primo regista cinematografico post-moderno, un cineasta capace di unire il cinema popolare a delle spinte fortemente autoriali e personali.

Quando Leone si accorse che le “vecchie favole” del cinema statunitense erano in procinto di spegnersi, poiché ancorate a storie e stilemi classici che avevano ormai stancato il pubblico, decise di non rimanere con le mani in mano: Leone si posizionò dietro la cinepresa ed iniziò a creare il suo cinema, la sua leggenda personale, il suo mito.

“Qual è il suo modo di vedere le cose a proposito del cinema?”

“Il cinema deve essere spettacolo, è questo che il pubblico vuole. E per me lo spettacolo più bello è quello del mito. Il cinema è mito. Poi, dietro questo spettacolo, si può suggerire tutto quello che si vuole: attualità, politica, critica sociale, ideologia. Ma bisogna farlo senza imporre, senza prevaricare, senza obbligare la gente a subire.”

(Estratto da un intervista del 1988)

Post Scriptum

Questo articolo è stato realizzato anche grazie alle seguenti letture: C’era una volta in Italia di Christopher Frayling, edito da Edizioni Cineteca di Bologna e dal numero della rivista Il Castoro (inserto dell’Unità) dedicato al regista romano a cura di Francesco Mininni, edito nel 1995.

Questo articolo è stato scritto da:

Rosario Azzaro, Direttore editoriale