“Signori si nasce ed io lo nacqui, modestamente” (Signori si nasce, M. Mattoli, 1960).
Quando pensiamo a Totò, non possono non ritornare alla nostra mente la sua eterna comicità, la sua Napoli e il suo essere ‘disarticolato’, inclassificabile in un solo genere. Totò è lo pseudonimo di Antonio de Curtis, nato a Napoli il 15 febbraio 1898; il celebre soprannome si deve alla madre, che iniziò a chiamarlo “Totò” fin da bambino. Nato da Anna Clemente e Giuseppe de Curtis, da cui ha ereditato il titolo di Principe di Bisanzio, è stato in seguito adottato dal marchese Francesco Maria Gagliardi Focas. Si rivela ben presto un ragazzino vivace, pieno di vita e innamorato del teatro: un’indole che lo porta presto ad abbandonare gli studi scolastici per dedicarsi al mondo dell’arte.
Sin da giovanissimo iniziò a recitare in piccoli teatri di periferia, anche se le sue performance non vennero particolarmente apprezzate. A 16 anni nessuno, nemmeno lui, credeva che questa passione sarebbe mai diventata un lavoro; decise così di intraprendere la carriera militare, arruolandosi come volontario. Ben presto la vita militare e soprattutto il rispetto delle gerarchie che questa comporta, iniziarono a stargli strette e così abbandonò dopo poco tempo. Pare sia stata questa esperienza a ispirargli il motto “Siamo uomini o caporali?”. Questa espressione, usata per la prima volta nel film Totò le Mokò (1949), ha dato il titolo all’omonimo film del 1955, uno dei film più sentiti della sua carriera e fulcro della sua filosofia. È stato Totò stesso a chiarirne il significato:
“L’umanità, io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza; quella dei caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare per tutta la vita […]. I caporali sono invece coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre al posto di comando, spesso senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque”.
Ripeteva spesso che non si può far ridere se non si conoscono la miseria, la sofferenza, la fame, la solitudine, tutte sensazioni di cui lui aveva fatto esperienza quando, negli anni della vita militare, subiva continui soprusi e vessazioni.
GLI ANNI DELL’AVANSPETTACOLO
Quel ragazzo che sin da piccolissimo aveva mostrato le sue doti da intrattenitore decise di non arrendersi e così, negli anni Venti, puntò sul genere del varietà: in breve tempo divenne molto apprezzato per le sue maschere comiche, in particolare per aver impersonato l’antagonista di Pulcinella, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Principe della risata”. Dopo il grande successo ottenuto al Teatro Jovinelli di Roma, iniziò a recitare nei principali café-concerto, facendosi conoscere a livello nazionale. Purtroppo degli spettacoli teatrali sono arrivate a noi poche notizie, poiché la stampa non dedicava molto spazio all’avanspettacolo, ma i numerosi manifesti con il suo nome scritto in grandi dimensioni testimoniano quanto fosse apprezzato. Durante quegli anni perfezionò la sua maschera, dando vita ad un repertorio straordinario dalla quale avrebbe continuato ad attingere gran parte degli sketch futuri. Ciò che lo contraddistinse sin dai primi anni di attività fu indubbiamente il suo carisma, le sue espressioni peculiari, la capacità di far ridere creando dei doppi sensi che tuttavia non scadevano mai nel volgare. Con i suoi giochi linguistici ha dato persino vita a dei neologismi, nella maggior parte dei casi mescolando continuamente italiano e napoletano. Il suo obiettivo era riprodurre il parlato colloquiale del popolo italiano, che ancora faticava a dominare la lingua madre in quanto troppo abituato a comunicare in dialetto.
Totò è stato un grande maestro dell’improvvisazione. Questa fu una caratteristica fondamentale per il successo nel mondo dell’avanspettacolo ma anche per quello cinematografico: spesso la macchina da presa spesso si limitava a seguire i suoi movimenti e le sue battute improvvisate, che generavano ilarità tra i suoi stessi colleghi. Sin dagli esordi quindi la sua maschera venne definita una ‘maschera disarticolata’ per via della sua mascella snodabile e asimmetrica che esercitava per ore e ore davanti allo specchio. La stampa, però, anche in questi anni, non fu sempre generosa, anzi, si rivelò molto severa nei suoi confronti: venne spesso accusato di “buffoneria” e di ripetere sempre le stesse battute limitandosi a recitare storie leggere e disimpegnate. Ciononostante, Totò ha continuato a difendere strenuamente il mestiere del comico. Egli riteneva, infatti, che questo fosse il mestiere più difficile del mondo: «Non è una cosa facile fare il comico, è la cosa più difficile che esiste, il drammatico è più facile, il comico no; difatti nel mondo gli attori comici si contano sulle dita, mentre di attori drammatici ce ne sono un’infinità. Molta gente sottovaluta il film comico, ma è più difficile far ridere che far piangere».
LA CARRIERA CINEMATOGRAFICA
Con l’avvento del cinema sonoro, Totò tentò la carriera cinematografica. Firmò il suo primo contratto cinematografico con Gustavo Lombardo per Fermo con le mani! (1937). L’intenzione primaria del film era proporre al pubblico un’alternativa italiana del personaggio Charlot di Chaplin, che il comico napoletano considerava come un punto di riferimento per la storia della comicità grazie alla costruzione di una maschera duratura e sempre coerente con se stessa. Tra il 1937 e il 1950 ha alternato il palco teatrale al grande schermo, anche se il passaggio da una forma artistica all’altra non fu affatto semplice per l’attore: essendo abituato al teatro, ambiente in cui lo spettatore segue in diretta ciò che avviene sul palco, dopo i primi ciak sul set cinematografico tendeva a perdere la concentrazione. Ad ogni modo, ciò che più gli mancava del teatro era l’assenza del pubblico dal vivo, con cui amava comunicare direttamente. Come detto, anche al cinema non riusciva a trattenersi dall’improvvisare e i registi, certi che il suo tocco avrebbe dato valore aggiunto alle opere, lo lasciavano fare. Vittorio De Sica disse che “Certe sue folli improvvisazioni durante la recitazione erano geniali e insostituibili”.
Durante la sua carriera condivise la scena con alcune delle più importanti personalità di quegli anni. Nel 1951 recitò al fianco di Aldo Fabrizi in Guardie e ladri, una storia a metà tra la comicità e il dramma, ascrivibile al filone del “neorealismo rosa”. Con Peppino De Filippo ha dato vita ad una delle collaborazioni più apprezzate del nostro cinema. Ha recitato insieme per la prima volta in Totò e le donne (1952) e qualche anno dopo si sono ritrovati in Totò, Peppino e… la malafemmina (1956, campione di incassi), considerato il film comico di Totò per antonomasia. Secondo le testimonianze di molti collaboratori della pellicola, quest’ultimo è da considerarsi per buona parte una creazione originale di Totò e Peppino che hanno stravolto, integrato e ripensato intere sequenze. Nel 1954 prende parte a Miseria e nobiltà (M. Mattioli, 1954), film tratto dall’omonima opera teatrale di Eduardo Scarpetta e in cui recitò con Sophia Loren.
Prese parte, con Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni, anche al film capostipite della “commedia all’italiana”: I soliti ignoti (M. Monicelli, 1958). Il film è stato premiato con due Nastri d’argento e candidato ai premi Oscar 1959 come miglior film straniero. È considerato uno dei più grandi esempi di caper movie, sottogenere del thriller in cui una banda compie un grosso colpo criminale. Tra i tanti film interpretati non mancano le parodie, come Totò contro Maciste (F. Cerchio, 1962) o Che fine ha fatto Totò Baby? (O. Alessi, 1964), parodia di Che fine ha fatto Baby Jane? (R. Aldrich, 1962).
Negli anni Sessanta, quando stava ormai giungendo al termine della sua carriera, sono arrivate proposte di collaborazione da parte di importanti cineasti come Alberto Lattuada e Federico Fellini, ma fu l’incontro con Pasolini nel 1966 a dare inizio ad una nuova fase della sua carriera. Il regista friulano gli propose di girare Uccellacci e uccellini (1967) e poi un episodio di Capriccio all’italiana (1967), due storie impegnate con le quali l’attore dimostrò di poter recitare anche storie dal contenuto fortemente simbolico. Della prima non condivideva appieno il personaggio e la poetica del regista, ma Totò era deciso a produrre opere di qualità per la paura di essere dimenticato dal pubblico. Quest’opera in particolare è una favola con un importante sottotesto. I personaggi rappresentano rispettivamente gli intellettuali, che tentano di risvegliare le coscienze degli italiani, e le masse che però non accettano i loro moralismi. Questo è stato l’ultimo film da protagonista interpretato da Totò. Pasolini ha scelto proprio l’attore napoletano perché era molto affascinato dalla sua maschera che riteneva riunisse “in maniera assolutamente armoniosa due momenti tipici dei personaggi delle favole: l’assurdità/il clownesco e l’immensamente umano.” L’esperienza sul set per Totò fu inedita e Pasolini, di tanto in tanto, ne smorzava l’istinto da comico improvvisatore, ma nel complesso fu un’esperienza assolutamente positiva per entrambi grazie alla stima che nutrivano l’uno nei confronti dell’altro.
Totò si spense la mattina del 15 aprile 1967 all’età di 69 anni, stroncato da un infarto. Pochi giorni prima aveva dichiarato: “Chiudo in fallimento. Nessuno mi ricorderà.” Mai profezia si rivelò più falsa. È stato un attore comico, paroliere, drammaturgo e poeta che ha dedicato la propria vita al teatro e al cinema, recitando in oltre 50 spettacoli e 97 pellicole. Sebbene in vita sia stato ampiamente criticato dalla stampa, dopo la morte è stato decisamente rivalutato e riconosciuto come il comico italiano più popolare di sempre. Non era ascrivibile ad un solo genere, poiché era inclassificabile: incarnava la miseria, il vessato, la rassegnazione ma anche il coraggio e l’energia della gente comune, quell’energia che si cela nel cuore degli sconfortati e riesce a trasformarli in eroi. Aveva ragione Giancarlo Governi, il biografo televisivo di Totò, che sosteneva che uno dei suoi miracoli fosse la durata, dato che “a cinquant’anni dalla morte, il suo personaggio non è svanito, ma si è addirittura rafforzato”.
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