Il Torino Underground Cinefest, festival del cinema indipendente ideato e diretto dal regista Mauro Russo Rouge, è tornato live e gratuitamente dal 2 al 9 settembre, con l’ottava edizione proposta dall’associazione culturale SystemOut e dall’Università Popolare ArtInMovimento. L’obiettivo centrale del Festival è da sempre quello di promuovere e divulgare il cinema indipendente, arthouse, e si propone come una manifestazione sensibile a quei linguaggi di nicchia, più arditi e sperimentali, che sia con lungometraggi che con cortometraggi, fa fatica a trovare una degna collocazione all’interno del cinema mainstream.

Con quasi 2800 film ricevuti da tutto il mondo e 117 film selezionati, l’ottava edizione del Torino Underground si è presentata al pubblico con l’intento di stupire ancora una volta. Numeri importanti che denotano una crescita esponenziale negli anni. 

Noi di Framescinema.com vi proponiamo le minirecensioni di due dei lungometraggi in concorso.

TERMINAL STATION 

E’ un interessante dramma a tinte horror e fantasy l’esordio alla regia di Mavi Simão, prima regista donna dello stato brasiliano del Maranhão. Il film parla di Catarina, una donna forte, bella e libera che decide di lasciare la sua città natale, São Luís, per iniziare una nuova vita. Durante lo shopping per la sua festa d’addio, incontra Francisco, con il quale, qualche anno prima, aveva avuto una relazione importante, interrotta al culmine con la scomparsa improvvisa di lui. Le spiegazioni di Francisco, in una conversazione criptica e misteriosa, nascondono il vero motivo della sua scomparsa. Approfittando della giornata, Catarina si ubriaca per dimenticare la situazione. Il giorno dopo, quest’ultima riesce a malapena a camminare nel caos di casa sua e, senza rendersene conto, va via diretta verso al suo destino (sinossi riportata nella scheda ufficiale del film a cura del TUCFest).

Questo Terminal Station mostra tutto il cuore che la regista Mavi Simão ha messo nella sua realizzazione, e la foga di voler stupire o ammaliare compare in ogni inquadratura. Con pochi mezzi a disposizione costruisce un film sperimentale caratterizzato da una narrazione non lineare chiaramente ispirata a Mulholland Drive, pregna di simbolismi (come il granchio, rappresentazione del passaggio al mondo ultraterreno), con venature horror e da ghost story, riuscendo a tratti a installare nello spettatore una sincera inquietudine. Un’inquietudine portata in scena dalla brava protagonista Áurea Maranhão, che si unisce a una sceneggiatura povera di dialoghi e a delle ottime musiche, che confluiscono in un cinema sensoriale costruito per immagini e suoni.

La pellicola non risulta tuttavia perfetta: la qualità della fotografia è estremamente altalenante, a tratti curata e a tratti a livello delle telenovelas, mentre la struttura narrativa complica la comprensione del film in maniera non totalmente giustificata e nonostante la breve durata (74 minuti), qualche taglio in più in fase di montaggio avrebbe aiutato il tutto. La  Simão a tratti si fa sopraffare dalla foga di stupire, con scene disturbanti che non si amalgamano perfettamente col resto e risultano essere un po’ gratuite.

A conti fatti però risulta essere un film a cui è impossibile voler male, in cui la regista ha mostrato cuore e coraggio, creando un’opera godibilissima con diversi spunti interessanti.

GIANTS BEING LONELY

L’opera prima di Grear Patterson, presentata nella sezione Orizzonti della 77ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è un interessantissimo esordio che da un lato mette in luce il talento di questo giovane regista, ma mostra allo stesso tempo il fianco a enormi difetti che rischiano di rovinare l’esperienza complessiva.

Bobby (Jack Irving) è il lanciatore di punta della sua squadra di baseball del liceo, un sognatore senza madre e con un padre alcolizzato che, seppur amandolo, rimane sempre freddo e distante. Il suo compagno di squadra Adam (Ben Irving), il figlio dell’allenatore, è soggetto a violenti rimproveri a casa e non ha nessun supporto dalla madre emotivamente distante. In mezzo a loro c’è Caroline (Lily Gavin), la più bella della scuola, proveniente da una famiglia apparentemente perfetta che ama entrambi i ragazzi e vuole solo andare al ballo di fine anno. Ambientato in un paesaggio semi-rurale di foreste verdeggianti e desideri repressi, il film d’esordio dell’apprezzato artista multimediale Grear Patterson è una storia profondamente personale di giovinezza ed età virile, che traccia gli alti e bassi dell’amore, del sesso, della solitudine, dell’amicizia, del baseball e della morte (sinossi riportata nella scheda ufficiale del film a cura del TUCFest). 

Patterson, grazie alla stretta sinergia con il bravissimo direttore della fotografia Hunter Zimny, si ispira ai principali cineasti americani indipendenti degli ultimi anni, da Sean Baker a Kelly Reichardt, ne mastica lo stile, ci aggiunge una punta di Terrence Malick e, nonostante le numerose influenze, riesce a sviluppare una messa in scena personale, che mostra un mondo sospeso e sognante, quasi un non luogo, che ben si presta a rappresentare la difficoltà di trovare una dimensione propria nell’età adolescenziale, tema centrale del film. La storia di Bobby e Adam a tratti ci conquista, due gemelli diversi (non a caso gli attori sono fratelli) che per qualche ragione invidiano la vita dell’altro, due vite che a un occhio esterno potrebbero sembrare felici, ma che nel privato si mostrano disastrose e cariche di sofferenze. Di ottimo livello anche il montaggio di Ismael de Diego, che si ispira ai lavori di Nick Houy, montatore di fiducia delle opere di Greta Gerwig, che dona grande dinamicità alla narrazione.

Purtroppo il comparto tecnico non riesce a sopperire ai due enormi problemi del film: la sceneggiatura e il comparto attoriale. La sceneggiatura, basata su un’esperienza vissuta dal regista durante la sua adolescenza e pesantemente rimaneggiata, è costruita su dialoghi totalmente innaturali e meccanici, che non funzionano neanche se visti sotto un’ottica surreale, e porta a un finale parzialmente forzato che lascia ampiamente perplessi. A peggiorare il tutto ci pensa il comparto attoriale, che non riesce a realizzare il difficile compito di dare naturalezza a una sceneggiatura che di naturale ha poco, a causa probabilmente di una direzione degli attori di Patterson discutibile. 

A conti fatti questa opera prima viaggia su due percorsi paralleli, uno pienamente riuscito e uno no, e questo fa ben sperare, perché nel caso in cui Patterson riuscisse ad aggiustare il tiro con i prossimi lavori, potrebbe senza dubbio diventare uno dei cineasti più interessanti del cinema indipendente americano nell’immediato futuro.

Questo articolo è stato scritto da:

Luca Orusa, Redattore