Come lo è Dante per il nostro paese, William Shakespeare, di cui oggi ricorre l’anniversario della morte, è per l’Inghilterra l’autore più rappresentativo perché cantore dell’intera natura umana. Nelle sue opere, infatti, il cosiddetto “Bardo” ha spaziato con uguale maestria dalle più alte passioni e nobili intenti agli istinti più bassi degli uomini, perfettamente in linea con la sua natura di autore che aveva il popolo come pubblico di riferimento. È tale capacità di abbracciare un così ampio spettro della natura umana a rendere le sue opere, a distanza di quattrocento anni, ancora così attuali, passabili di infinite interpretazioni e capaci di parlare ad un pubblico trasversale.
Tuttavia, con un catalogo tanto esteso (quasi 40 opere pervenuteci) e pieno di titoli leggendari, è naturale che alcuni siano meno presenti nella coscienza collettiva. Uno di questi è Tito Andronico, adattato nel film Titus (1999) dalla regista Julie Taymor (Frida, Across the universe). Quest’ultima aveva già portato l’opera a teatro alcuni anni prima.
Attenzione: l’articolo contiene una descrizione dettagliata della trama del film in questione, che tratta di argomenti che potrebbero disturbare alcuni lettori e include immagini suggestive.
‘A place calling itself Rome’
Titus, narrante le vicende di un immaginario generale romano, è ambientato in un amorfo spazio-tempo in cui bighe ed armature affiancano motociclette e pantaloni di pelle.
L’idea è quella di un impero romano “sopravvissuto” all’età moderna, o in alternativa di una Roma atemporale, che mescola diversi momenti della propria storia e, di conseguenza, della sua iconografia.
Non per niente, Titus è stato girato in larga parte a Cinecittà, con riprese aggiuntive realizzate in siti della capitale o di architettura romana. Le scene iniziali e finali, ambientate in un anfiteatro, rimandano immediatamente al fasto dell’età imperiale, alla cui fase più decadente strizzano l’occhio le feste debosciate nel palazzo dell’imperatore Saturnino, feste che non sfigurerebbero a fianco di quelle del Satyricon felliniano o del Caligola di Tinto Brass. Felliniane sono anche certi personaggi di sfondo come le donne “giunoniche” che vediamo per le strade di Roma e i grotteschi clown presenti in una scena. Nel palazzo imperiale abbiamo poi riferimenti alla Lupa che ha allattato Romolo e Remo (età monarchica) e a diverse rappresentazioni pittoriche del Senato (età repubblicana). Infine, in maniera affatto sottile, la sede del potere è il Palazzo della Civiltà Italiana, opera di architettura fascista davanti alla quale le fazioni avverse degli eredi al trono si scontrano esponendo bandiere coi colori della Lazio e della Roma.
Lo stile anacronistico ed esuberante della Taymor, che scade spesso nel kitsch e nel camp, si rivela perfettamente consono alla natura estremamente grafica dell’opera di Shakespeare.
Inventando il gore
Titus racconta del generale romano Tito Andronico (Anthony Hopkins) di ritorno da un successo militare sul popolo dei Goti. Come parte di un rituale funebre, questi uccide uno dei figli di Tamora (Jessica Lange), regina di questo popolo. Tale decisione gli si rivolterà contro quando il neo eletto imperatore Saturnino (Alan Cumming) la sceglie come sua sposa. Questo evento, infatti, genera una catena di vendette ed atti sanguinari.
Su istigazione di Aronne (Harry Lennix), il “moro” amante di Tamora, i figli di lei, Chirone (Jonathan Rhys-Meyers) e Demetrio (Matthew Rhys), uccidono Bassano, fratello dell’imperatore. Il loro obbiettivo è quello di stuprare sua moglie, Lavinia (Laura Fraser), figlia di Tito. Per evitare che riveli il fatto, una volta avvenuto, le mozzano lingua e mani. Due figli di Tito vengono accusati dell’omicidio di Bassano e imprigionati, e Aronne inganna il generale chiedendogli di tagliarsi una mano per riaverli indietro (gli verranno consegnate, in cambio, le teste dei due).
Il culmine della tragedia si ha nel finale, durante un banchetto nel quale Tito serve agli invitati, tra cui vi è anche Tamora, pasticci fatti con la carne di Chirone e Demetrio, assassinati la sera prima. Nel climax truculento, quasi tutti i personaggi principali si uccidono a vicenda. Sopravvivono il fratello, il nipote e il figlio di Andronico, Lucio, che viene incoronato imperatore, oltre al figlio neonato che Tamora ha avuto da Aronne.
Come anche un sommario della storia può provare, lo spettacolo Tito Andronico è estremamente sanguinario, anche per gli standard di Shakespeare. Questo pare essere uno dei motivi per cui l’opera è così poco conosciuta rispetto ad altre dell’autore, oltre ad essere portata di meno a teatro. La sua natura grafica risponde al gusto per l’orrido degli spettatori di età elisabettiana, ma per gli spettatori odierni una tale esagerazione potrebbe essere difficile da digerire o da prendere sul serio.
Per questo motivo, oltre ad essere considerata da diversi amanti di Shakespeare la sua opera peggiore, attorno a Tito Andronico si sono anche aperte diverse teorie che la vorrebbero la prima opera del Bardo (e per questo più rozza), una parodia degli spettacoli proposti all’epoca, una collaborazione o, in casi estremi, un testo a cui non avrebbe affatto posto mano.
Purtuttavia, in diversi punti lo stile sembra ricalcare proprio quello di Shakespeare, e vi appaiono molti dei temi e dei motivi che avrebbe sviluppato nelle sue opere successive (la finta pazzia, la corruzione del potere, la vendetta come un ciclo senza fine…). Oltre a ciò, come era tipico per il drammaturgo, questa violenza efferata deriva da riferimenti alti: le Metamorfosi di Ovidio, diversi miti greci, l’Ab urbe condita di Livio.
Questa capacità di Shakespeare di prendere elementi dal passato e da una tradizione considerata illustre per trasformarli in popolari ed accessibili è qualcosa che in fondo, a distanza di secoli, anche certi registi hanno fatto, dando vita a visioni disturbanti e sanguinose e creando così nuovi generi quali il gore o lo splatter.
Parlando del testo di Tito Andronico, la content creator Red, sul canale YouTube Overly Sarcastic Production, lo definisce “il pretesto shakespeariano per un film di Tarantino”. La comparazione è compiuta per fare una battuta, eppure non è del tutto scorretta: Tito Andronico potrebbe essere considerato, al pari della pletora di revenge play del 16esimo\17esimo secolo, l’antenato di un certo tipo di cinema exploitativo, che fa della violenza e della sua esagerazione la propria cifra stilistica.
Non è forse un caso, allora, che Taymor abbia deciso di portare questo testo sul grande schermo proprio sul finire del decennio che aveva visto un aumento di prodotti in cui tale violenza veniva rappresentata casualmente ed esasperatamente.
Spettatori di violenza
In Titus, la vista assume un ruolo importante sin dall’inizio: la prima immagine propostaci è quella degli occhi di un bambino che sta guardando un programma violento in TV. Questo personaggio diventerà poi parte integrante della vicenda, interpretando il nipote di Andronico, il giovane Lucio, personaggio il cui ruolo viene ampliato sulla scia di ciò che era già stato fatto nel 1985 per una versione televisiva della BBC. Con la scena iniziale ed il personaggio del giovane Lucio, Taymor crea un collegamento evidente tra l’opera di Shakespeare a cui stiamo per assistere e la contemporaneità, ed in particolar modo la sua indiscriminata offerta mediatica.
Nel film, la violenza gratuita viene più volte presentata come uno spettacolo a cui i personaggi assistono e reagiscono. Ad esempio, la scena in cui ad Andronico vengono riportate le teste dei suoi figli e la sua mano è un grottesco spettacolo circense. Ma c’è anche un altro, privilegiato spettatore della brutalità in corso: noi. La prova più evidente del fatto che il film chiami in causa il suo pubblico è il finale, nel quale viene rivelato che l’intera vicenda si è svolta all’interno di un anfiteatro pieno di persone. Un richiamo alla natura teatrale dell’opera, certo, ma anche una richiesta di responsabilità per lo spettatore. Con la consapevolezza del parallelismo impostato da Taymor tra passato e presente, è evidente che gli elementi più sanguinari in Titus fungano da critica al panorama mediatico del periodo e la casualità con cui la violenza era resa disponibile in televisione e al cinema, un fenomeno che nei successivi due decenni è andato solo incrementando.
Nel corso del film, il giovane Lucio è, come lo era all’inizio, lo spettatore di molta della violenza (è per esempio l’unico ad assistere al taglio della mano di Tito). Ciò ha un’evidente ricaduta psicologica sulla sua mente impressionabile: nelle poche occasioni in cui prende parola, dimostra di essere aggressivo. Di nuovo, Taymor traccia una linea diretta con la sua contemporaneità e con le discussioni che si stavano tenendo allora (e che in realtà proseguono ad oggi) attorno a quanto vedere atti violenti nei media potesse influenzare lo sviluppo dei più piccoli.
Tuttavia, alla fine ci viene lasciato uno spiraglio di speranza. Se nella versione teatrale della stessa Taymor veniva implicato che Lucio uccidesse il figlio di Aronne, o che comunque assistesse alla sua uccisione, nel film, al contrario, il bambino esce dall’anfiteatro portando con sé il neonato. Così facendo, Lucio, rappresentante degli Andronici, “riappacifica” simbolicamente la sua famiglia con la prole di Tamora. Memore di tutta la sofferenza a cui ha assistito, la nuova generazione evita così il reiterarsi o il ripetersi di un ciclo vizioso portato avanti dai suoi padri, da un sistema corrotto ed antiquato di cui questi bambini sono, in fondo, null’altro che vittime incolpevoli.
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