“Anybody with artistic ambitions is always trying to reconnect with the way they saw things as a child.”
Tim Burton
Tim Burton, autore di alcuni tra i più bei film d’animazione di sempre, fu fin da piccolo legato al mondo dell’illustrazione e dell’infanzia. La passione sviluppata già da bambino per soggetti gotici, figure allungate e lugubri, non svanì quando crebbe. I suoi film, sia in live action ma soprattutto in stop motion, sono caricati di una vera e propria poetica, che tuttavia Burton non riuscirà a imporre da subito.
Il regista iniziò la sua carriera nel mondo del cinema lavorando come animatore per la Disney, e partecipando alla realizzazione di “Red e Toby – Nemiciamici” (1981). Un’esperienza a suo parere limitante e tediosa, che niente aveva a che fare con il suo mondo interiore. Con “Vincent” invece, il suo primo cortometraggio risalente al 1982, Burton potè finalmente esprimersi più liberamente, creando un universo in stop motion caratterizzato da un’estetica decadente e sinistra che rivivrà in ogni sua opera d’animazione.
VINCENT (1982)
Con Vincent la vena creativa di Tim Burton vede la luce. Un inquietante bianco e nero, figure lunge e dagli atteggiamenti alienati, paranoia e un vivo espressionismo sono gli elementi che caratterizzano il primo corto del regista, quasi interamente autoprodotto. Poche persone all’epoca credevano in lui e nel successo che avrebbe potuto avere. Ironico, dato che Vincent sarà sempre un riferimento a cui guarderanno i grandi successi venuti in seguito, con un citazionismo talvolta evidente, talvolta più velato.
La linea di confine di realtà e fantasia nel cortometraggio è confusa e mistificata, enfatizzando le tenebrose paranoie provate dal protagonista. Spicca inoltre una forte componente autobiografica: Burton ci parla di un bambino fortemente disadattato, in contrasto con i genitori e ossessionato da un’estetica horror, dai racconti di Poe e da film dell’attore Vincent Price. Difficile non pensare all’infanzia dello stesso Tim, il quale non solo aveva avuto gli stessi interessi, ma aveva provato le stesse tensioni con i suoi genitori e passando anche lui molto tempo in solitudine a guardare film.
Così, lavorando con il cameraman Victor Abladov e con gli animatori Rick Heinrichs, Stephen Chiodo, Tim Burton realizza Vincent, dando un vero inizio alla sua carriera.
NIGHTMARE BEFORE CHRISTMAS (1993)
Nel periodo in cui stava lavorando al mediometraggio Frankenweenee (1984) Tim Burton si lascia affascinare dal libro per bambini “How the Grinch Stole Christmas”, e ne studia gli elementi fondamentali che inserirà poi, insieme ai suoi tipici tratti macabri già delineati in Vincent, nel suo successivo lavoro in stop motion del 1993, “Nightmare before Christmas”. La Disney decide di non firmarlo, e anzi è difficile per Burton persino farlo approvare. Viene quindi infatti affidato alla Touchstone, la sua etichetta secondaria, ed è questo un grandissimo errore da parte della casa di produzione visto l’enorme successo che sarebbe giunto dopo poco tempo.
“Nightmare before Christmas” è uno dei film più caratteristici di Tim Burton. È quasi paradossale quindi che non l’abbia diretto lui. La regia infatti viene affidata a Henry Selick e Burton, già impegnato con altri progetti, si limita a sceneggiarlo e produrlo, ma ciononostante la sua influenza è evidente. Dietro le tenebrose maschere degli abitanti del paese di Halloween si nascondono una forte emotività e dei sentimenti delicati. Burton riesce quindi, con il suo solito connubio di elegante e grottesco, a rappresentare in modo leggero e ironico dei veri e proprio mostri che vorrebbero essere qualcosa di diverso, ma in ultima istanza sono troppo legati alla loro vera natura e il tentativo di occuparsi del Natale risulta così fallimentare.
Jack Skeleton è oggi ritenuto il personaggio Disney più famoso insieme a Topolino e Winnie the Pooh, e soprattutto in Giappone è diventato una vera e propria icona.
LA SPOSA CADAVERE (2005)
Sempre con la stop motion Burton dà vita nel 2005 ad un altro capolavoro, “La sposa cadavere”. Il film è impostato sovrapponendo i diversi piani del musical, del dramma e della commedia (e con riferimenti alle Silly Symphonies), enfatizzando il più possibile la lunghezza delle figure che risultano a stento umane e i colori tetri. Proprio con i corpi umani il regista gioca, al fine di rendere chiaro il ruolo di ogni personaggio nella storia, definendo dei veri e propri “tipi”. L’austerità della madre di Victoria è sottolineata da tratti possenti, mentre suo padre è esageratamente basso e grasso, e ha sempre un’espressione truce sul viso. Allo stesso tempo il padre di Victor, più mite di sua moglie, non ha caratteristiche particolarmente evidenti, mentre l’estro di lei è reso visibile anche fisicamente.
Nonostante “La sposa cadavere” sia uno dei miglior film in stop motion, questa tecnica non è utilizzata costantemente nel film. Molto spesso anzi si ricorre alla CGI per scene difficilmente realizzabili in stop motion, come i movimenti di un personaggio più piccolo, più sciolti e veloci.
Con una colonna sonora macabra e un uso dei colori ricco di significato, il mondo dei vivi e la borghesia in particolare vengono dipinti come un universo squallido e vuoto. Al contrario, l’oltretomba assume una nuova connotazione, più ricca di emozioni, energia, e paradossalmente viva.
FRANKENWEENIE (2013)
L’ultimo lavoro in stop motion di Tim Burton riprende il mediometraggio del 1984 grazie a cui dovette abbandonare la Disney. Frankenweenie, il triste racconto di un bambino molto solo che cerca di riportare in vita il suo cane ormai morto, era già stato realizzato in live action. Nel 2012, il remake animato creato da Burton è un lungometraggio molto più profondo e dettagliato, e ha il sapore di riscatto con la casa di produzione che per lo stesso progetto lo aveva cacciato.
Anche in questo caso è possibile vedere alcuni elementi autobiografici della vita del regista, inserito in un contesto a cui non si sentiva adatto e proiettato a temi più cupi che i suoi coetanei e vicini di casa riuscissero a concepire.
Quest’ultimo lavoro non ebbe purtroppo il successo raggiunto dai film precedenti, testimoniando l’inizio di una crisi creativa del regista.
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