Di The Tree of Life (2011) di Terrence Malick – quinto lungometraggio in trentotto anni di carriera per il regista texano – si è detto e scritto molto fin dalla prima proiezione al Festival di Cannes dieci anni fa, dove la giuria presieduta da Robert De Niro gli assegnò la Palma d’Oro.

Per Malick si trattava del progetto di una vita: già ai tempi de I giorni del cielo (1978) parlava di un progetto misterioso intitolato Q, che avrebbe dovuto abbracciare l’intera storia del cosmo e le origini della vita. The Tree of Life è, in parte, la concretizzazione di questo sogno: un film di ambizioni spropositate, che tenta di mettere in relazione le vicende di una famiglia texana con la formazione della Terra e la nascita delle prime specie animali. Il tono dell’opera, come sempre con Malick, è filosofico: è noto che il regista abbia studiato a Harvard e insegnato al MIT, nonché tradotto in inglese opere di Heidegger come Vom Wesen des Grundes. All’epoca della sua uscita il film fu accolto – com’era prevedibile, viste le premesse dell’opera – da reazioni miste: alla prima proiezione sulla Croisette gli applausi entusiasti si mischiarono con i fischi dei detrattori. Ma già alla cerimonia di premiazione del festival, pochi giorni dopo, il film di Malick fu applaudito come solo di rado accade e, a poco a poco, nei mesi e negli anni a venire, molti giornalisti e studiosi hanno cominciato e riconoscere l’unicità e la sincerità dell’opera e già nel 2012 Roger Ebert – uno tra i più influenti critici cinematografici di sempre – lo inserì nella sua personale lista dei più grandi film della storia.

Ma perché The Tree of Life è un tale capolavoro e, a parere di chi scrive, una delle assolute punte di diamante del cinema contemporaneo? Per cominciare è bene premettere che le riflessioni filosofiche che possono essere fatte basandosi sull’opera sono infinite – dai rimandi a Tommaso d’Aquino a quelli a Heidegger –, ma non è questa la sede: l’intenzione del presente articolo è infatti spiegare perché il film di Malick sia un capolavoro prima di tutto da un punto di vista prettamente cinematografico, in quanto opera radicalmente innovativa nell’ambito del linguaggio della settima arte.

Val la pena accennare, sinteticamente, alla trama: un giorno i signori O’Brien (Brad Pitt e Jessica Chastain) vengono a sapere della morte del loro secondogenito. Il più vecchio dei loro tre figli, Jack (Sean Penn da adulto, Hunter McCracken da giovane), – che vive ormai in una moderna metropoli piena di grattacieli – è anch’egli raggiunto dalla tragica notizia e inizia a quel punto una meditazione esistenziale che lo porta a ricordare l’infanzia negli anni ‘50 a Waco (Texas) e a riflettere sul senso della propria vita e sul rapporto con i genitori, laddove il padre è incarnazione della Natura egoista e dominatrice e la madre della Grazia sempre pronta all’abnegazione. Queste vicende si fondono, come già accennato, con una suggestiva ricostruzione dell’origine dell’universo e della vita.

Come spesso accade con progetti a lungo covati, il numero di ore di girato realizzate da Malick per The Tree of Life è stato enorme, tant’è vero che il direttore della fotografia del film, il messicano Emmanuel Lubezki, ha dichiarato che il primo cut sfiorasse le dieci ore di durata. A partire da questa monumentale bozza, Malick e cinque montatori hanno realizzato una versione finale di due ore e diciotto minuti che, sorprendentemente, non dà mai l’idea di essere solamente parziale. Certo, gli ampi tagli sono evidenti, ma è proprio qui che sta la forza di The Tree of Life, che riesce a sintetizzare alla perfezione ciò che manca perché tagliato. Malick, infatti, procede per scene molto brevi (chiaramente sintesi delle originali: non a caso il montaggio è serratissimo e non vi sono mai piani sequenza, spezzati in fase di editing) che, pur nella loro essenzialità, riescono a catturare il cuore emotivo della narrazione e a lasciar intuire tutto ciò che manca. In questo senso The Tree of Life pretende dallo spettatore uno straordinario sforzo inferenziale: è lo spettatore a dover inferire – portare dentro al film – ciò che è stato tagliato. Per questo motivo la frammentarietà della pellicola è in realtà la sua forza: il film dura poco più di due ore, ma è come se ne inglobasse dieci. Ogni scena è un bagliore, una sollecitazione emotiva che rimanda a quello che avrebbe dovuto essere, una piccola pennellata a suggerire un quadro ben più ampio che è lo spettatore a ricreare tramite il proprio lavoro interpretativo.

Questa struttura rapsodica si adatta perfettamente alla narrazione del film, in larga parte fondata su ricordi d’infanzia, intuizioni momentanee, riflessioni estemporanee: un cancello aperto, un lampione, dei bambini che si bagnano in un fiume o giocano a pallone, un clown (figure 1-5)… sono montati da Malick come frammenti di ricordi andati perduti, esattamente come le scene del suo film, impossibili da presentare in forma estesa come impossibile è per il Jack adulto di Sean Penn – vero protagonista del film, benché appaia per appena una decina di minuti – rivivere le proprie memorie d’infanzia nella propria conformazione originale. Di esse permangono solo dei “cocci” (molti sono i personaggi senza nome, i momenti privi di contesto: sedimenti del passato), che è lo spettatore a mettere insieme e integrare, anche e soprattutto tramite la propria esperienza di vita, che entra prepotentemente in gioco durante la visione e svolge un ruolo attivo nella ricomposizione dei frammentari ricordi del protagonista: siamo stati tutti bambini e abbiamo tutti convissuto con molti dei conflitti e dubbi del protagonista (ecco perché è importante che la trama sia così “generica”: il racconto di una famiglia tipo, in cui tutti possiamo riconoscerci almeno in parte). È davvero come se Malick con il suo stile volesse imitare il funzionamento della mente umana che – magmatica, disorganica, sconnessa – non rielabora le esperienze in forma completa, ma solo parziale e asistematica (pensiamoci: quando ricordiamo un evento non lo riviviamo mai nella sua interezza, ne cogliamo bensì i punti essenziali, capaci però di restituirci tutta l’emotività del momento). Il regista struttura secondo questa logica l’intera pellicola e finisce dunque per giocare con il tempo filmico e la sua percezione: condensa in poco più di due ore infiniti altri film potenziali e con un’inquadratura di pochi secondi è capace di spalancare universi narrativi ed emotivi inesauribili, che lo spettatore fa suoi tramite la propria immaginazione, il richiamo a ricordi privati e la costante interrogazione del testo filmico. The Tree of Life è dunque davvero un film “albero”, potenzialmente infinito nelle proprie ramificazioni emozionali e di significazione.

Per tutte queste ragioni The Tree of Life, pur nella sua varietà di immagini e situazioni, è in realtà un’opera di grandissima essenzialità che cerca di condensare nel minor tempo possibile un denso magma emotivo e narrativo. Si pensi solo all’introduzione del personaggio di Sean Penn – il Jack O’Brien adulto. Malick lo fa comparire per la prima volta al risveglio a letto: è spettinato, quasi frastornato (figura 6). È un uomo in totale crisi esistenziale che il regista, con una concisione che ha del miracoloso, tratteggia in pochi attimi, mostrando lui e la (presunta) moglie prima seduti ai due capi del letto (figura 7) – distanti, impossibilitati a comunicare – e in seguito addirittura su due piani diversi della propria casa (figure 8-9). Lei sopra, lui sotto, più lontani che mai. Basta questa scena a Malick per abbozzare un personaggio del tutto alienato, distaccato rispetto a un mondo – il presente della narrazione – assolutamente freddo, asettico e quasi denaturato, opposto rispetto alla natura lussureggiante della Waco degli anni ‘50 dove lo spettatore è trasportato dai ricordi d’infanzia di Jack. È come se la natura fosse imprigionata tra le strutture del mondo moderno – del cielo rimane il riflesso nelle vetrate dei grattacieli vertiginosi (figura 10), gli alberi appaiono solo nel mezzo di un ambiente completamente antropizzato (figura 11) – e gli uomini fossero vittima di un distacco dalla propria Madre.

Il film è una storia di ricerca: i personaggi sono in costante dialogo, tramite lo stream of consciousness tipicamente malickiano, con il trascendente, il divino (non inteso in una dimensione confessionale) e la natura, con cui paiono cercare una rinnovata concordia. The Tree of Life è una pellicola in cui tutto tende all’alto, alla luce misteriosa che ci illumina dal cielo, che la straordinaria fotografia di Emmanuel Lubezki riesce a catturare in modo stupefacente. Il film è pieno di porte e cancelli che si spalancano, scale rivolte al sole, ponti (figure 12-16): Malick coglie i segni quotidiani della tensione alla trascendenza che è parte essenziale dell’essere umano e mostra i suoi personaggi intenti alla ricerca di tracce dell’ultraterreno nella propria vita e nei propri ricordi.

E se i protagonisti all’inizio del film paiono più lontani che mai dal divino e dalla natura, colpiti dall’indicibile dolore della morte del secondogenito degli O’Brien, paiono finalmente ricongiungersi ad essi nel finale quando, avvolti dalla luce e dallo splendore di una nuova alba – momento di autentica poesia visiva –, trovano la forza di affidare il loro caro defunto al trascendente e di tornare a fidarsi di ciò che di più alto c’è nel mondo. In questo modo il film diviene una straordinaria parabola sul superamento del lutto e sul ritorno alla vita, che celebra il rinnovato desiderio dell’uomo di tornare a credere nel miracolo dell’esistenza e nel ciclo naturale delle cose, di cui la morte è parte essenziale.

E proprio quel “miracolo dell’esistenza” è raccontato da Malick con uno stile visivo assolutamente unico, che fa del mondo una cattedrale, un tempio sacro in cui persino le gocce di pioggia e le foglie secche paiono pervase da maestà e sublimate dalla magnifica colonna sonora, che spazia dalla Grande messe des morts di Berlioz a un capolavoro della musica classica contemporanea come il Requiem for my friend di Zbigniew Preisner, composto in memoria dell’amico regista Krzysztof Kieślowski. E Malick, con il coraggio e l’ambizione sfrontata che sono propri dei grandi, allarga il campo della narrazione all’intero creato – mettendo in relazione piccolo e grande, attimi e ere geologiche – e intreccia la storia degli O’Brien con quella dell’universo e della vita biologica, creando rime visive straordinarie: gli embrioni paiono pianeti (figura 17), le galassie occhi umani (figura 18), un feto dietro una membrana ricorda un volto dietro una tenda (figure 19-20). E tutto ciò per ricordarci che anche noi, con le nostre esistenze così piccole e insignificanti, siamo parte di quella storia della vita che va avanti da miliardi di anni.

L’impressionante impianto visivo di The Tree of Life, peraltro, ha ispirato decine di registi, che negli anni hanno provato, spesso senza riuscirci, a imitarlo: da Iñarritu con Revenant – Redivivo a Nolan con Interstellar, passando persino per il Sorrentino de La grande bellezza, che cita Malick tra le sue maggiori fonti d’ispirazione, e lo Zack Snyder de L’uomo d’acciaio (si vedano le scene dell’infanzia di Superman). Malick stesso, a onor del vero, pare essere caduto vittima del suo capolavoro, dal momento che da anni pare disperatamente cercare di replicarne la felicità stilistica: To The Wonder, Knight of Cups, Voyage of Time e Song to Song (con l’eccezione del bel La vita nascosta – Hidden Life) girano tutti attorno alle idee di The Tree of Life, ma falliscono nel replicarne il lirismo sincero, con esiti intellettualoidi e talvolta francamente imbarazzanti.

La grandezza del capolavoro del 2011, infatti, sta nell’essere una pellicola da un lato stilisticamente complessa e stratificatissima, come abbiamo provato a spiegare, ma dall’altro mai cervellotica o cerebrale e, anzi, assolutamente fruibile. Come in tutte le opere più raffinate, infatti, qui lo stile non pesa e, al contrario, quasi non si nota perché a emergere – al di là della ricchezza filosofica e concettuale – è anzitutto la dimensione emotiva e universale di una storia umanissima, in cui chiunque può riconoscersi e di fronte alla quale è impossibile non essere travolti da un senso di profonda fascinazione e meraviglia.

Questo articolo è stato scritto da:

Jacopo Barbero, Caporedattore