The Housemaid e il misterioso cinema della Corea del Sud
La storia della settima arte in Corea del Sud, ora patria di una delle più vivaci cinematografie del mondo, è assai più misteriosa di quelle del Giappone o della Cina, conosciute e amate dai cinefili anche in Occidente. Il cinema coreano nasce tardi (si ritiene che la prima pellicola sia stata Fight for Justice di Kim To-san, realizzata solo nel 1919) e per decenni, complici vicissitudini storiche quali l’occupazione giapponese e la Guerra di Corea, i film erano principalmente strumenti di lotta politica contro gli invasori. Buona parte di queste pellicole è oggi perduta – incluso il leggendario film Arirang di Na Un-gyu. Nel 1960, però, a seguito della rivoluzione popolare di aprile, vi fu per alcuni mesi un significativo allentamento dell’allora rigido regime di censura, che diede il via a una tanto breve quanto florida stagione del cinema sudcoreano. Tra i prodotti di questa fioritura artistica il più significativo è probabilmente The Housemaid (Hanyeo, 1960) di Kim Ki-young, annoverato tra i massimi capolavori del cinema dell’estremo oriente e prima pellicola di una trilogia proseguita dallo stesso Kim con Woman of Fire (1971) e Woman of Fire ‘82 (1982).
Una sconcertante parabola di classe
The Housemaid è un’opera di libertà artistica sconcertante, in cui sensualità, inquietudine e violenza sono poste al servizio di un feroce ritratto della società coreana. La vicenda ruota attorno a una famiglia borghese che assume una giovane governante che, a poco a poco, comincia a comportarsi in modo sempre più bizzarro e seducente nei confronti del padrone di casa, per poi precipitare in una follia violenta e vendicativa.
La pellicola lascia a bocca aperta per una messinscena di straordinaria audacia stilistica, fatta di rotture della quarta parete, sapiente uso della profondità di campo, luci espressionistiche e grande eleganza compositiva: tutti sintomi di una rara libertà creativa. La scrittura, inoltre, è di grande maturità: non vengono mai fornite risposte facili riguardo alle motivazioni dei personaggi, laddove Kim propende sempre per l’ambiguità, che è l’affascinante cifra stilistica del film. Il ritratto della società coreana che tratteggia il regista-sceneggiatore, che si ispirò a un reale fatto di cronaca, è impietoso, fatto di alienazione e sopraffazione in ogni ambito della vita.
The Housemaid è soprattutto un film che mette in scena i rapporti di genere in una società strutturalmente patriarcale, in cui le donne sono formalmente sottomesse, ma in realtà pienamente padrone della situazione, dal momento che gli uomini – come spesso accade nel cinema sudcoreano: si pensi alle pellicole di autori contemporanei come Park Chan-wook e Bong Joon-ho – appaiono come deboli, fiacchi, probabilmente impotenti. Non a caso il protagonista maschile della pellicola è in realtà figura di contorno, un fantoccio che assiste quasi da spettatore allo scontro tra la sua avida moglie e la governante. È un uomo che detiene tutto il potere sociale, ma non appare in grado di esercitarlo. La moglie lo comanda; la domestica quasi lo violenta, possedendolo sessualmente e impadronendosi a poco a poco dell’abitazione borghese, in un aberrante tentativo di riscatto di classe: è impossibile, in questo senso, non pensare alle somiglianze con il conturbante Il servo (1963) di Joseph Losey, più ancora che con Parasite (2019) del già citato Bong.
Il personaggio della governante, interpretato dalla straordinaria Lee Eun-shim, è un concentrato di inquietudine, sensualità e violenza esplicite ma anche dolcezza e candore giovanile: una delle femme fatale più terribili e spietate che si siano mai viste sul grande schermo (indimenticabile il suo mostruoso sguardo dietro i vetri della finestra), vittima e carnefice di un conflitto di classe portato alle massime conseguenze, anche nei simbolismi: non a caso buona parte del film si svolge su una scala, in una sorta di enfasi architettonica della parabola di classe al centro del racconto. Kim fonde sapientemente molti generi (dramma famigliare, orrore, persino commedia) e il risultato è una pietra miliare del cinema sudcoreano, già ricchissima di stilemi che ancora oggi fanno grande quella cinematografia, nonché una pellicola che, a oltre sessant’anni anni di distanza, non ha perso nulla della propria forza stilistica.
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