“Spesso ho avuto modo di incontrare molti ammiratori che si complimentavano con me per Testimone d’accusa, credendo che l’avessi diretto io. Quando lo feci notare a Billy Wilder, mi disse che molti ammiratori si complimentavano con lui per Il caso Paradine credendo lo avesse diretto lui…”
Queste parole pronunciate da Alfred Hitchcock ci immergono subito in una delle questioni principali circa l’interpretazione di Testimone d’accusa, antesignano del courtroom drama diretto da Billy Wilder. D’altronde non si tratta dell’interpretazione definitiva, ma di una lettura possibile in mezzo a tante altre. Vediamo perché.
Testimone d’accusa
Testimone d’accusa è il titolo di un racconto del 1925 della regina dei gialli Agatha Christie, da cui lei stessa trasse una commedia teatrale nel 1953, dalla quale deriva a sua volta il film diretto da Billy Wilder nel 1957. Nonostante la gestazione a step, la stessa autrice la definì il miglior film tratto da una sua opera.
La trama verte attorno a un uomo apparentemente docile (Tyrone Power) accusato dell’omicidio di una ricca vedova, che perciò assume un ex avvocato dalla forte personalità (Charles Laughton) per la propria difesa. Eppure la testimonianza contraria della moglie del sospettato (Marlene Dietrich) è il principio di una serie di colpi di scena costruiti a orologeria per portare lo spettatore verso una direzione sorprendente.
D’altronde si potrebbe quasi dire che sia il tratto distintivo dei gialli di Agatha Christie quello di assistere sempre a una soluzione del caso per niente “telefonata”, e anzi accessibile solamente con informazioni aggiuntive che la narrazione non ci offre fino all’ultimo momento. Questo film non fa eccezione, anche se indubbiamente un’altra ragione per cui la storia regge fino all’ultimo è la bravura degli attori, Laughton su tutti, i cui personaggi interpretano a loro volta delle parti di una grande commedia umana.
La commedia umana
(Da qui in poi seguono spoiler)
Testimone d’accusa mette infatti in scena un grande atto teatrale, ponendo sul palcoscenico un avvicendarsi di personaggi che indossano maschere e recitano ruoli in una ricostruzione più fedele possibile della realtà. Proprio come qualunque individuo nella quotidianità, nel loro essere quasi macchiettistici i protagonisti del film sommano tanti piccoli tratti che vanno a costituire personalità rotonde e definite, eppure ancora saldamente legate al rispettivo ruolo sociale.
C’è l’avvocato Charles Laughton, che nel privato finge uno stile di vita sano contrario a quello tenuto realmente, poi abbiamo l’imputato Tyrone Power, che indossa la maschera di cittadino rispettabile fino a rivelarsi come disonesto solo dopo l’assoluzione, e infine c’è la moglie (ed ex attrice) Marlene Dietrich, maschera della maschera, che si finge donna fredda e approfittatrice solo per dimostrare all’ultimo una devozione ancora più grande nei confronti del marito, simulando e dissimulando la propria identità.
Ma in generale è la corte il luogo che rivela maggiormente la natura teatrale dell’opera (e della corte in sé): gli avvocati indossano la toga e la parrucca per assumere un ruolo, l’imputato viene istruito su come fare bella impressione, idem i testimoni. La giuria e la corte sono la platea di spettatori, tutti gli altri gli attori. Sia il tribunale che il teatro sono del resto luoghi scenici in cui viene convenzionalmente eseguito un rito (creazione totalmente umana) di ricostruzione della realtà, con tutte le loro pratiche (formule, spazi, costumi) e limiti. Non è detto infatti che la ricostruzione raggiunga la verità, ma magari nemmeno un’approssimazione di essa. E infatti a volte fallisce, come nel film in questione.
Anatomia di una corte
Non sorprende dunque che Testimone d’accusa, che peraltro è una pièce teatrale ancor prima di un film, sia tutto centrato sulla performance degli attori (e dei personaggi da loro interpretati). E se l’interpretazione è il punto nodale di questo film, non è detto che sia l’unica via possibile. Tanti courtroom drama si sono infatti avvicendati nel tempo, ponendo il focus di volta in volta su tematiche diverse, pur rimanendo sempre fedeli alla loro natura di rituale di ricostruzione della verità.
La parola ai giurati di Sidney Lumet, sempre del 1957 e sempre tratto da una pièce teatrale, guarda dal lato diametralmente opposto del processo, concentrandosi esclusivamente sulla giuria anziché sugli avvocati. Il film mette infatti in scena il difficile processo decisionale umano, creando un focus claustrofobico sui dodici giurati chiamati a valutare la colpevolezza di un individuo ed escludendo il resto della realtà. Differente è Anatomia di un omicidio di Otto Preminger (1959), che fedelmente al suo titolo ricostruisce un processo penale dall’inizio alla fine per chiarirne le dinamiche (di accusa, indagine, restituzione), concentrandosi molto sulla necessità performativa dell’atto.
Entrambi gli approcci sono stati riproposti in tempi recenti, ponendo maggiore accento sulla fallibilità del rituale umano, che potrebbe non arrivare mai alla verità. Giurato numero 2 di Clint Eastwood (2024) rilegge La parola ai giurati, con i dodici uomini arrabbiati che però non sono isolati dal resto del mondo, e al contrario si interfacciano con una realtà naturalmente caotica che mette in crisi il rito di ricostruzione. Anatomia di una caduta di Justine Triet (2023) invece non si preoccupa nemmeno di fornire la verità definitiva, ma ci lascia solamente quella ricostruita: non c’è interesse a prendere le parti di qualcuno, solo a sancire il carattere artificiale e fallibile della ricostruzione umana.
Il rito umano
Posta la natura rituale, performativa-ricostruttiva e fallibile del processo, è inevitabile ammetterne l’analogia con qualsiasi tipo di drammaturgia, dal teatro al cinema. A maggior ragione, i courtroom drama, ossia le drammaturgie che raccontano i processi, sono una doppia lente d’ingrandimento sull’essere umano.
Testimone d’accusa si concentra sul rito del processo e sulla sua natura performativa, perciò sta alla base: c’è poca attenzione ai giurati ma molta a come avvocati e imputati appaiono davanti alla giuria (così come in Anatomia di un omicidio). Inoltre, alla fine è messo ampiamente in discussione il punto d’arrivo (proprio come in Giurato numero 2) e in generale la capacità del processo di ricostruire fedelmente la verità (come in Anatomia di una caduta).
Le tinte noir unite al carattere brillante sono quelle che genera(va)no confusione facendo attribuire Testimone d’accusa ad Alfred Hitchcock. Tuttavia, questo carattere duale, che rende difficile la ricostruzione della realtà, è ironicamente il tratto fondamentale del film. D’altronde non si tratta dell’interpretazione definitiva, ma di una lettura possibile in mezzo a tante altre. Fallibile come un processo.

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