“I don’t do drugs. I don’t like being fucked up. I’ve got enough bizarre chemicals floating around in my head. I’m just naturally like this”
In molti sketch dello show Monty Python’s Flying Circus che aveva contribuito a creare e scrivere, Terry Gilliam è il cavaliere medievale in armatura che appare dal nulla e schiaffeggia la gente con un pollo. Una parte già di per sé memorabile e riconoscibile; tuttavia Gilliam dà il meglio di sé non nel recitare parti eccentriche e grottesche per lo show -che comunque non sono mancate-, ma per gli sketch animati di raccordo tra alcune delle scene in live-action. Queste brevi scene racchiudono già l’anima della seguente produzione artistica di Terry Gilliam da regista: sequenze grottesche e idiosincratiche, giocate in allucinati paesaggi urbani in cui personaggi vittoriani si trasformano in modi impensabili, prima di venire calpestati dall’iconico piede gigante.
Il cinema di Terry Gilliam è una costruzione fantastica debordante, kitsch, eccessiva, sconclusionata, immaginifica. Unisce le ispirazioni più disomogenee, contamina generi e storie, si esibisce in voli pindarici fino a far crollare del tutto le barriere tra reale e immaginario, e che parte dal reale solo per rifuggirlo. O, per meglio dire, parte dall’osservazione del reale per costruire un senso più alto, fondato sul potere della fantasia.
Il cuore della filmografia di Terry Gilliam non è tuttavia la pura fantasia fine a sé stessa, ma nasce da una personale osservazione della contemporaneità.
Questo possiamo riconoscerlo in buona parte della filmografia del cineasta americano; ma, in particolare, in due delle migliori opere del regista, l’una un capolavoro conclamato e riconosciuto, l’altra un film sicuramente molto apprezzato ma forse non così noto.
BRAZIL – L’AMORE AI TEMPI DELLA BUROCRAZIA
Aneddotica vorrebbe che il capolavoro di Terry Gilliam fosse stato sviluppato con il titolo di lavorazione 1984 ½: in parte ovvio riferimento al romanzo di George Orwell, in parte a 8 ½ di Fellini. Se il primo appare quasi scontato -la storia è quella di un futuro/presente corporativo e distopico, a metà tra Orwell e Kafka-, il secondo è quantomeno curioso, ed è anche l’aspetto che ci interessa di più. Brazil è un ritratto -non troppo- deformante della società dei consumi, del capitalismo e del ventesimo secolo, ma anche uno specchio delle ossessioni cinefile e delle ispirazioni narrative di Gilliam. Fellini è certo l’influenza principale di Gilliam, ma troviamo anche Metropolis -certi scorci della città espressionista di Gilliam sembrano presi pari pari da quella di Lang- e La corazzata Potëmkin.
Brazil è ambientato in un ventesimo secolo retrofuturistico, schiacciato dalla burocrazia e dall’ossessione per il controllo, abitato da figure nevrotiche ossessionate dalla perfezione estetica, in cui l’amore e la fantasia sono la valvola di sfogo per sfuggire alla realtà, un rifugio utopistico. Entrambi trovano sostanza negli sgargianti sogni dello sfortunato Sam Lowry (Jonathan Pryce), in cui si immagina cavaliere in armatura alata intento a salvare una principessa (Kim Greist) che, nella realtà, ha ben poco bisogno di un cavaliere. I sogni barocchi di Lowry sono le ancore di salvezza dell’uomo contemporaneo imprigionato da media e burocrazia. Ma, prima di tutto il resto, sono le illusioni di un cineasta abbastanza folle e sognatore, che vede il cinico sistema delle produzioni hollywoodiane e ci sbatte la testa, preferendo seguire il proprio tracciato fantastico. Anche a costo di inimicarsi e di venire schiacciato da quel sistema tentacolare che rifiuta.
LA LEGGENDA DEL RE PESCATORE – DI DISC JOCKEY, GRATTACIELI E GNOMI
Il conduttore radiofonico Jack Lucas (Jeff Bridges) è il carismatico protagonista assoluto di un seguitissimo programma. Un giorno, a causa di un intervento particolarmente velenoso e spietato, si sente indiretto responsabile di una strage armata in un locale. Distrutto dall’evento, perde tutto e si trascina sulle rive dell’East River con la decisione di farla finita, ma viene salvato dal più improbabile cavaliere in armatura che ci sia: il clochard Perry (Robin Williams).
Almeno all’inizio, La leggenda del Re Pescatore non è il film più tipico di Terry Gilliam. Dopo una produzione all’insegna del fantastico -il summenzionato Brazil, Le avventure del Barone di Munchausen, I banditi del tempo-, La leggenda del Re Pescatore è il primo film a prendere le mosse da un contesto sociale e urbano ben preciso e riconoscibile allo spettatore. Le città espressioniste e i Paesi immaginari lasciano il posto a una concreta e riconoscibilissima New York degli anni ottanta-novanta. Una città che sembra avere ben poco di fantastico e che, all’ombra dei grattacieli, non sembra lasciare molto spazio per voli dell’immaginazione. Ed è proprio qui che questa diventa ancora più necessaria.
Il fantastico si libera quando il re della radio Jack Lucas abbandona la sua vita di ricchezza e di solide verità, per conoscere quella del popolo che vive all’ombra dello yuppismo, nei bassifondi della Grande mela. Come in Brazil, diventa l’unica soluzione a una realtà brutale dominata dal cinismo imperante; al contrario di Brazil, non nasce più dal contesto di una realtà trasformatasi (o lo era già?) in grottesco incubo, ma dalla quotidianità di un ceto umile.
In particolare, dalla quotidianità di Perry, a sua volta reduce da una tragedia che lo ha costretto a varcare la soglia tra il mondo luccicante delle classi alte e quello abitato da gnomi e mostruosi cavalieri rossi. La sua quest volta a trovare il Sacro Graal è, ancora una volta, la ricerca di un senso, uno scopo fantastico ma più reale del vacuo miraggio di successo del sogno americano e del capitalismo. Inseguirla per le strade di New York può essere doloroso, può spingerci al confronto con le nostre tragedie personali: ma l’immaginazione è l’unica cura per un mondo contemporaneo subissato dai media e dalla logica del denaro.
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