Il nuovo cinema cinese e la “quinta generazione”

Gli anni Ottanta rappresentarono un momento chiave per l’evoluzione del cinema cinese. Sia a Hong Kong (che all’epoca era ancora una colonia britannica) sia a Taiwan sia nella Repubblica Popolare Cinese, infatti, si svilupparono in quel periodo le cosiddette new wave, che cambiarono per sempre queste cinematografie, come era accaduto due decenni prima in Europa con la Nouvelle Vague francese. I registi di questi “nuovi cinema” erano anzitutto cinefili: avevano formato il proprio sguardo sui film del passato ed erano pronti a rielaborare tali sensibilità in nuove narrazioni di dirompente originalità. A Hong Kong si imposero cineasti come Ann Hui, Patrick Tam, Allen Fong e Tsui Hark, ai quali poi fece eco una seconda new wave composta dal celebre Wong Kar-wai, da Stanley Kwan e Fruit Chan; a Taiwan, invece, si affermarono autori fondamentali come Hou Hsiao-hsien (A Time to Live, a Time to Die, 1985; Città dolente, 1989) e Edward Yang (Taipei Story, 1984; A Brighter Summer Day, 1991), che aprirono la strada alle opere di Tsai Ming-liang. La Repubblica Popolare Cinese, dal canto suo, fece il suo ingresso negli anni Ottanta con una situazione politica piuttosto complessa: nel 1976 terminò la drammatica fase della Rivoluzione culturale (una terribile guerra civile, nata dal fallimento delle politiche economiche maoiste) e nello stesso anno morì Mao Zedong; in seguito, nel 1978, Deng Xiaoping assunse la leadership cinese e iniziò un percorso di riforme che avrebbero aperto il paese al mondo e posto le basi per la vertiginosa crescita economica del colosso asiatico. 

Fu in questo clima di fermento che il cinema cinese visse una fase di cambiamento profondo: l’Accademia del Cinema di Pechino, chiusa per anni durante la Rivoluzione Culturale, riaprì i battenti e nel 1982 si diplomarono presso di essa diverse personalità che avrebbero dato vita alla cosiddetta “quinta generazione” di cineasti cinesi e avrebbero contribuito al rinnovamento del cinema nazionale. Tra queste figure, le più rappresentative sono senz’altro Chen Kaige e Zhang Yimou, i quali nel 1984 girarono un’autentica pietra miliare, Terra gialla (Huang tudi, anche conosciuto col titolo internazionale Yellow Earth), che nel 2005, durante la ventiquattresima edizione degli Hong Kong Film Awards, venne eletta quarto miglior film cinese di sempre, dopo Spring in a Small Town (1948) di Mu Fei, A Better Tomorrow (1986) di John Woo e Days of Being Wild (1990) di Wong Kar-wai.

I giovani Chen Kaige (primo a sinistra) e Zhang Yimou (al centro) sul set di Terra gialla

Terra gialla: scontro tra tradizione e ideologia

Diretto da Chen e magistralmente fotografato da Zhang, Terra gialla è l’adattamento di un romanzo di Ke Lan e venne prodotto da Guangxi Film Studio, una casa di produzione (controllata dallo stato, come tutte a quel tempo in Cina) che aveva da poco avviato le proprie attività e che era quindi propensa a promuovere un rinnovamento nel cinema post-Rivoluzione culturale. 

Il film è ambientato nel 1939, durante la Guerra Sino-Giapponese, nelle campagne del nord dello Shaanxi vicino alle rive del Fiume Giallo. Racconta la storia del soldato Gu Qing, membro dell’Ottava Armata della Strada (un’unità dell’esercito del Partito Comunista Cinese, che all’epoca lottava contro i nazionalisti del Kuomintang per il governo del paese: la Repubblica Popolare sarebbe nata solo nel 1949), inviato nelle aree rurali alla ricerca di allegri canti popolari da adattare allo spirito comunista e utilizzare per incoraggiare i soldati rivoluzionari. Giunto nelle campagne, Gu soggiorna presso una famiglia di contadini – composta dall’anziano padre vedovo, dalla decenne Cuiqiao e dal fratello minore Hanhan – e, grazie a loro, conosce la vita dell’ambiente contadino e scopre che le canzoni felici che cerca non esistono: gli unici canti che ascolta parlano di travaglio e sofferenza quotidiani. 

Come molti tra i primi film della “quinta generazione” (ad esempio, Horse Thief di Tian Zhuangzhuang, 1986; e Sorgo rosso di Zhang Yimou, 1987), Terra gialla si ambienta nella Cina rurale e ne esalta la dimensione paesaggistica e le culture locali. Non c’è alcuna epicità propagandistica (che era invece onnipresente nel cinema dell’era maoista) e i personaggi non rappresentano più monolitiche incarnazioni di credi politici in perenne scontro: i protagonisti sono esseri umani comuni, alle prese con le incertezze quotidiane e le pene dell’esistenza, lontanissimi da qualsiasi sicurezza eroica. È un cinema collocabile “in quel «neo-tradizionalismo» che si era diffuso in diversi ambiti artistici nella Cina della prima metà degli anni Ottanta, segno di un genuino tentativo di scoprire le autentiche tradizioni del paese al di fuori della retorica di regime” (D. Tomasi). La campagna cinese, che in molti avevano tragicamente conosciuto durante le rieducazioni nei campi di lavoro nel periodo della Rivoluzione culturale, appare come un universo fuori dal tempo e dallo spazio, lontanissimo dai grandi centri urbani e dai prorompenti ideali rivoluzionari.

In questa profonda rottura con i canoni dello spesso monocorde cinema maoista, Chen mette in luce con grande finezza le illusioni del soldato Gu, sostenitore indottrinato degli ideali dell’imminente rivoluzione comunista, che giunge nella Cina profonda con la convinzione di riscoprirvi le radici di una cultura millenaria da adeguare alle dottrine di progresso proposte da Mao. Ciò che impara a conoscere, in realtà, è un mondo in cui poco contano gli ideali e tutto si fonda sulla sussistenza, sul riuscire a sopravvivere traendo il possibile dalla natura. Memorabile, in questo senso, è il confronto tra il soldato e l’anziano patriarca della famiglia che lo ospita: l’uomo racconta di aver dato in sposa una propria figlia maggiore e di come la felicità o infelicità di quest’ultima dipendano esclusivamente dalla disponibilità di cibo nella sua nuova famiglia. Non c’è spazio per i sentimenti: “Hai degli amici se hai carne e vino. L’amore coniugale dipende dalla disponibilità di cereali. Niente cibo, niente amore.”, proclama il padre, sotto lo sguardo attonito di Gu che, a poco a poco, comprende la difficoltà di instillare le parole d’ordine di Mao, che parlano di libertà e cultura per tutti (donne incluse), in un luogo legatissimo alle tradizioni del passato e alle immediate necessità.  

Di lì a poco, peraltro, anche la giovanissima Cuiqiao apprenderà di stare per essere data in sposa a un uomo che non conosce: una scena che Chen gira dedicando un lungo e insistito primo piano al volto della ragazzina, interpretata con straordinaria dignità da un’intensa Xue Bai, che ascolta il padre comunicarle, con la voce rotta dal dolore, la necessità di maritarla, nella speranza che possa trovare la felicità con un consorte in grado di mantenerla. D’altronde il genitore stesso, poco prima, aveva certificato che “per un uomo sposarsi è felicità, per una donna è tristezza”. È allora che in Cuiqiao, affascinata dai racconti di Gu, che parlano di emancipazione femminile per le arruolate nell’armata maoista, germoglia il desiderio di lasciare la sua terra per unirsi ai rivoluzionari. Pertanto si fa promettere dal soldato, ormai in procinto di ripartire alla volta del proprio campo base a Yan’an, di tornare entro poche settimane per salvarla dal matrimonio combinato e portarla con sé per unirsi all’esercito comunista. La scena del commiato tra i due personaggi, di grande lirismo anche per l’impiego del canto tradizionale, mostra un addio pieno di ansie e speranze: lui si lascia alle spalle il paesaggio ancestrale di cui a poco a poco si è innamorato, sempre più consapevole della non facile applicabilità degli ideali che ispirano la sua esistenza; lei, invece, si riimmerge tra le sue montagne giallastre, teatro delle tradizioni e delle arretratezze che la opprimono, desiderosa di partire e incontrare finalmente quelle idee di progresso che tanto la allettano. 

Nella sequenza successiva, tuttavia, le speranze di Cuiqiao vengono abbattute: una rossa portantina (la stessa della celebre sequenza d’apertura di Sorgo rosso) e un corteo di suonatori si presentano alla sua porta. Il matrimonio e lo sposo non sono mostrati: Chen inquadra solo una mano che rimuove un velo rosso dal volto della giovane e ne sottolinea l’oppressione tramite il respiro affannoso e un leggero arretramento del personaggio, letteralmente messo al muro, verso la parete sullo sfondo. La ragazza, poco dopo, annuncerà al fratellino minore Hanhan di aver deciso di andarsene, senza nemmeno attendere l’annunciato ritorno del soldato Gu, per unirsi all’armata comunista e trovare la sua emancipazione. “Hanhan, sto soffrendo. Non posso più aspettare. […] Di a fratello Gu che Cuiqiao diventerà un soldato.”, dice la giovane, prima di attraversare da sola il Fiume Giallo, in una sequenza notturna che ha del miracoloso per l’uso del colore, che fa apparire i personaggi come ombre nere stagliate contro il blu scuro del fiume. Gu, in realtà, farà ritorno nello Shaanxi per cercare Cuiqiao, ma arriverà solo in tempo per assistere a un rito agreste per supplicare la pioggia: una sequenza impressionante, particolarmente creativa per l’efficace uso del ralenti, in cui un popolo e una terra assetati, sottoposti all’ennesimo travaglio, invocano la salvezza dal cielo mentre il piccolo Hanhan, avvistato Gu su una collina poco lontana, corre verso di lui gridando: “Salva il nostro popolo!”. È il disperato appello delle campagne alla promessa comunista, di cui Gu è portatore. Ma Chen non chiude il film celebrando la potenza salvifica del pensiero delGrande Timoniere”, come probabilmente sarebbe accaduto in epoca maoista, bensì sospende la narrazione e, come ultimo soggetto, inquadra un panorama vuoto e arido, in cui riecheggia un canto tradizionale rivoluzionario (“Il galletto è volato oltre il muro, sono i comunisti a salvare il popolo”) che, dopo gli orrori dell’Era di Mao e della Rivoluzione culturale, suggerisce la fallacia dell’ideologia che di lì a pochi anni avrebbe avuto la meglio in Cina. Il film, non a caso, suscitò non poche controversie alla sua uscita poiché, secondo molti, metteva in discussione la capacità del Partito Comunista di aiutare le popolazioni rurali durante gli anni della guerra civile che portò alla nascita della Repubblica Popolare. La sospensione del finale e l’incerto destino a cui Chen Kaige consegna Cuiqiao, in effetti, sono lontanissimi dalle rassicuranti certezze di tanto cinema di propaganda dei decenni precedenti, in cui il comunismo era rappresentato come un appiglio sicuro per il popolo.

Un grande racconto per suoni e immagini

Secondo Richard James Havis, autore nel 2003 di una celebre intervista a Chen Kaige, Terra gialla fu il primo film cinese, almeno dai tempi della rivoluzione comunista del 1949, a raccontare una storia attraverso le immagini, più che attraverso i dialoghi. All’estetica talvolta monotona del cinema propagandistico degli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, la pellicola di Chen oppone una straordinaria identità visiva e sonora, che sfrutta tutte le potenzialità del mezzo cinematografico. Il regista rende il paesaggio protagonista e sono molte le inquadrature, spesso campi lunghi e lunghissimi, in cui non vi è presenza umana o in cui i protagonisti appaiono piccolissimi, sovrastati dalle aride distese e catene montuose del nord dello Shaanxi, caratterizzate dal terreno giallastro che dà il titolo al film. È come se Chen, tramite la composizione dei fotogrammi, volesse talvolta mettere da parte i suoi personaggi e sottolineare come quei luoghi sterminati rappresentino la vera culla dello stile di vita che tanto influisce sul loro destino. Tanta attenzione è dedicata proprio all’esaltazione delle tradizioni locali: vengono mostrati rituali (il corteo nuziale e il matrimonio all’inizio), danze e soprattutto molte sequenze di canto. La musica e le nenie popolari, infatti, sono assai presenti nel film e si alternano al soffiare del vento, per costruire un’atmosfera rarefatta e atemporale, caratteristica di un luogo in cui la Storia fatica ad arrivare e a sortire i suoi effetti. Il carattere pittorico della pellicola, infine, è esaltato dalla dimensione del colore, del cui utilizzo i registi della “quinta generazione” (e Chen Kaige e Zhang Yimou in particolare!) erano (e restano) maestri: i gialli predominanti, ma anche i rossi e i blu si fondono nel fotogramma, come a voler tradurre l’incontro-scontro tra tradizioni, mentalità, culture e ideologie in un amalgama coloristico di grande bellezza.

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Jacopo Barbero, Vicedirettore