Yokai non è solo la parola giapponese per indicare un demone, ma indica anche un momento, una sensazione di terrore e confusione, o di stupore di fronte ad un evento straordinario e inafferrabile, spiegabile solo con l’intervento di un’entità soprannaturale.
Una pratica comune di diverse civiltà e culture è quella di creare storie e miti capaci di trovare una spiegazione ad avvenimenti apparentemente inspiegabili: a partire dal sorgere e tramontare del sole, passando per l’esistenza di montagne e mari, fino a domande ben più complesse come il perché dell’esistenza stessa dell’uomo. In questo le civiltà orientali non fanno assolutamente eccezione, ma anzi mantengono ancora oggi alcune pratiche che noi occidentali definiremmo come scaramantiche o superstiziose (un ovvio esempio è il famoso maneki neko, la statuetta a forma di gatto intenta a “chiamare” con la zampa sinistra, con l’obiettivo di attirare i clienti e ancora oggi spesso presente nei negozi, o con la destra, per portare salute e fortuna e dunque spesso acquistata e posizionata nelle abitazioni private). Nella cultura cinese si manifestano così figure come gli E Gui, spiriti insaziabili di persone avide in vita, i Diao Si Gui, gli spiriti degli impiccati e dei suicidi, o le Nu Gui, spiriti femminili vittime di violenza o ingiustizie caratterizzate da un lungo vestito bianco e lunghi capelli neri sugli occhi, tanto simili alle Yuki-Onna giapponesi, che condividono con esse un aspetto praticamente identico, ed affiancate nella cultura giapponese da Oni, giganteschi ogre. Ricordiamo anche i Kappa, piccoli esseri antropomorfi dalle mani e piedi palmati ghiotti di cetrioli, e i Tengu, uccelli antropomorfi con la faccia rossa ed un lungo becco.
Uno dei concetti più affascinanti di queste culture sono gli Tsukumogami, ovvero oggetti che divenuti datati finiscono per sviluppare un proprio spirito ed una propria identità. Nella cultura giapponese, per esempio, ne esistono moltissimi con nomi diversi: dal Bakezōri, generato in un tradizionale sandalo da spiaggia, al Chōchinobake, nato da una lanterna, fino al Kosode-no-te, che si sviluppa da un kimono. Con il grande sviluppo tecnologico avvenuto negli anni recenti, la produzione cinematografica dell’orrore ha fin da subito manifestato un forte interesse nel prendere il concetto sopracitato e di riflettere sui possibili legami tra le nuove invenzioni e la cultura storica e le credenze popolari. Andiamo quindi alla riscoperta di cinque (+1) pellicole orientali che hanno saputo riflettere sulle nuove tecnologie attraverso il cinema dell’orrore.
L’articolo contiene alcuni spoiler minori riguardo ai film analizzati
Ringu e le V/H/S
Con l’approdo in sala nel 2002 di The Ring di Gore Verbinski si aprì una fortunatissima parentesi di remake cinematografici in terra statunitense di alcuni tra i più famosi ed apprezzati horror orientali ed in particolare giapponesi. La forza di Verbinski – che dimostra un’abilità singolare ed unica che non verrà riproposta dagli altri cineasti che si imbarcheranno nelle altre operazioni di remake – fu quella di adattare, modificando non poco, l’apprezzatissimo Ringu, uscito in terra nipponica quattro anni prima e diretto da Hideo Nakata.
Per quanto si dimostri funzionale anche nella versione americana, la maledizione perpetuata da Sadako – il cui design pesca a piene mani da quello delle Yuki-Onna sopracitate – attraverso le videocassette ricorda molto da vicino il concetto di Tsukumogami, con la sostituzione della vecchiaia dell’oggetto con l’elemento sovrannaturale dei poteri psichici di cui dispone la giovane ragazza fin dalla nascita, anch’esso altro elemento comune a molte storie orientali e molto meno radicato invece nelle varie culture occidentali (ad esclusione della figura del medium, che comunque mostra numerose differenze). La storia messa in scena da Nakata non si ferma però al semplice sfruttamento delle videocassette – in quel momento talmente diffuse da far nascere facilmente in qualunque spettatore la paura di avere una copia della cassetta maledetta in uno dei propri scaffali – ma imbastisce un racconto pieno di tristezza ed angoscia, in cui l’amore per i propri famigliari e l’odio per il diverso tipici del cinema di Nakata donano alla pellicola una forte personalità e profondità.
Kairo e l’ascesa del web
Ad oggi anche i bambini più giovani sono capaci di utilizzare gli smartphone più avanzati ed i pc di nuova generazione. Basta però andare indietro di soli trent’anni per approdare in un mondo in cui navigare su internet era un’impresa di cui pochi erano capaci e dove il web stesso si presentava come un fattore fortemente misterioso. Non sorprende quindi che nel 2001 un regista come Kiyoshi Kurosawa abbia “colto la palla al balzo” per portare sul grande schermo Kairo (conosciuto anche come Pulse sul territorio occidentale), dalla cui sceneggiatura lo stesso Kurosawa avrebbe poi tratto un romanzo omonimo. Il film si basa sulla rappresentazione del web come ponte tra il nostro mondo e quello degli spiriti.
Tra suoni intermittenti di pc che si connettono lentamente ad internet, porte sigillate da nastro adesivo rosso, macchie sui muri dalla forma antropomorfa e strani glitch grafici sui vari schermi, scorre una prima parte fortemente incentrata sulla paura – tanto da presentare quello che da molti viene ritenuto l’incontro con un fantasma più spaventoso del cinema senza l’uso di jumpscare o forti rumori – dopo la quale la pellicola presenta una virata molto marcata, mettendo in scena una profonda riflessione sulla natura isolazionista dell’uomo e di come l’avvento dei computer e del web lo possa influenzare negativamente, andando però a perdere gradualmente il senso di terrore presente all’inizio. Se quindi nel panorama dei j-horror non si presenta come un titolo senza difetti, l’effetto instant cult si è comunque immediatamente manifestato – tanto da generare a sua volta una serie di remake americana che vanta all’attivo tre pellicole – grazie ad alcune scene divenute iconiche, ma soprattutto alla lungimiranza dello sguardo del regista, più attuale che mai soprattutto dopo il periodo di isolamento dovuto alla pandemia.
One Missed Call e il fenomeno dei cellulari
Oggi il cellulare è divenuto qualcosa che molti definiscono come un’appendice del nostro corpo, qualcosa con cui una persona non esce mai senza e che utilizza per gli scopi più svariati, da messaggiare con una persona dall’altro capo del mondo a guardare intere stagioni di una serie tv in streaming su una piattaforma. Nei primi anni 2000, invece, il cellulare era uno strumento già fortemente diffuso, soprattutto tra i giovani adulti, ma era solamente utilizzato per mandare un messaggio o chiamare (tra l’altro con caratteri o minuti limitati) o al massimo giocare a Snake. Proprio su queste limitazioni Takashi Miike costruisce il suo One Missed Call – tratto dal romanzo Chakushin Ari di Yasushi Akimoto – uscito nel 2003 (arrivato da noi con l’insipida traduzione The Call – Non rispondere) basato su una struttura molto semplice: a turno alcuni ragazzi ricevono una chiamata senza risposta sul cellulare, con messaggio in segreteria allegato che risulta però datato due giorni nel futuro ed in cui si sente la propria voce terminare una frase urlando. Superfluo dire come, dopo due giorni dall’arrivo del messaggio, la persona in questione muoia pronunciando proprio la frase sentita nel messaggio, continuando la maledizione attraverso una chiamata a un numero sulla propria rubrica.
Dove l’anno prima Kurosawa aveva puntato alla sperimentazione, Miike decide invece di imbastire un film fortemente tradizionale nel panorama dei j-horror con un elemento di riflessione meno marcato – ma comunque presente – e puntando molto sulla costruzione di momenti horror e disturbanti che risultano fortemente riusciti. Successo più di pubblico che di critica, la pellicola negli anni ha comunque ottenuto due sequel in terra nipponica ed un remake americano che non sono però riusciti a mantenere l’asticella così elevata.
Shutter e gli ultimi giorni della pellicola fotografica
Quando nel 2004 esce in Thailandia Shutter diretto dall’esordiente Banjong Pisanthanakun, nessuno poteva immaginare il successo a cui sarebbe andato incontro con quasi sette milioni di dollari di incasso, un’uscita internazionale che comprende moltissimi paesi anche occidentali ed un seguito di remake sia in oriente sia in occidente come mai successo fino a quel momento. L’attesa ed il mistero portato dalla necessità di sviluppare, con un periodo di attesa abbastanza lungo, le fotografie sul rullino aveva infatti portato il regista thailandese ad applicare l’attesa non nella riuscita della fotografia in sé ma nella scoperta di aver fotografato qualcosa di macabro e sovrannaturale.
Il film di Pisanthanakun si sviluppa quindi come un vero e proprio manuale di cinematografia horror, capace di pescare a piene mani elementi da diversi titoli più o meno famosi – le fotografie “anomale” erano in parte già presenti in Ringu ed una sequenza della trama ricorda molto da vicino quanto visto in So cos’hai fatto – integrandoli sapientemente in un racconto capace comunque di reggersi sulle proprie gambe, con due protagonisti ben scritti, riempiendo la narrazione di twist che tengono incollato lo spettatore allo schermo – il frame di chiusura rimarrà sicuramente impresso dopo la prima visione – e riuscendo anche a raccontare la cultura e le usanze della Thailandia. Se a questo aggiungiamo la rinuncia quasi totale agli effetti digitali, donando così un effetto più ruvido e realistico ai momenti sovrannaturali, e l’ispirazione ad una vera leggenda urbana del luogo, ci si rende conto di quanto questa pellicola sia estremamente geniale.
Noroi: The Curse ed il mockumentary
Dopo il successo planetario di The Blair Witch Project, era soltanto questione di tempo prima che anche dalle terre nipponiche arrivasse un tentativo di sfruttare il fenomeno del mockumentary (sottogenere per cui vi rimandiamo al nostro approfondimento). La pellicola più riuscita – da molti considerata una delle migliori del sottogenere tutto – è senza dubbio Noroi: The Curse di Kōji Shiraishi uscita nel 2005, la quale presenta allo spettatore l’ultimo documentario sul sovrannaturale di Masafumi Kobayashi, un ricercatore sul paranormale scomparso misteriosamente dopo l’incendio che ha investito la sua casa due giorni dopo la fine delle riprese.
Costruita come un vero e proprio documentario montato da Kobayashi prima della sua scomparsa, la pellicola presenta quindi un montaggio ad hoc per la visione con musiche d’accompagnamento, scritte in sovrimpressione, fermi immagini, ralenti per mostrare allo spettatore qualcosa che può essersi perso in precedenza, numerose interviste ed anche spezzoni di programmi televisivi capaci di ricostruire il quadro complessivo della maledizione su cui il protagonista sta indagando. Ciò che eleva questa pellicola sopra alla media dei mockumentary è però la scelta di non sfruttare jumpscare o rumori forti per generare lo spavento momentaneo e nemmeno di inserire le classiche “inquadrature mosse in corsa” tipiche di queste produzioni, bensì costruisce una tensione continua grazie alla sensazione continua di angoscia e disturbo che cresce sequenza dopo sequenza, con una regia sempre chiara che mantiene costantemente l’obiettivo fisso su ciò che davvero spaventa: l’orrore è reale.
Non possiamo però concludere senza una pellicola bonus, obbligatoria da inserire in quest’ultima categoria proprio per la sua abilità di dialogare direttamente con lo spettatore, generando una fortissima ansia per tutta la visione. Stiamo parlando della pellicola taiwanese Incantation, diretta da Kevin Ko nel 2022 e disponibile su Netflix.
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