Nel corso degli anni si è sempre più ammirato il cinema orientale, grazie anche ai vari omaggi di grandi registi come Quentin Tarantino o Wim Wenders, riscoprendo così registi e sceneggiatori del passato che nonostante abbiano influenzato il cinema mondiale, non hanno mai goduto di grande considerazione.

Tra questi spicca il nome di Yasujirō Ozu che nonostante il peso delle sue opere, basti pensare alla filmografia di Wim Wenders, rimane ancora un regista meno considerato e spesso dimenticato.

Per questo motivo vogliamo parlarvi di una delle sue opere più belle, strazianti e penetranti, una pellicola che rappresenta l’inizio della cosiddetta “trilogia di Noriko”, seguita da Il tempo del raccolto del grano (1951) e da Viaggio a Tokyo (1953), altro suo capolavoro immenso, che non avrebbe avuto lo stesso peso senza la sua Tarda Primavera (1949).

La narrazione nascosta di Yasujirō Ozu e l’attaccamento alla famiglia

L’opera racconta la storia di Noriko (da qui il nome della trilogia), una ventisettenne che vive con il padre vedovo Shukichi aiutandolo nella vita quotidiana dato che il padre risulta essere dipendente dalla figlia. Questo equilibrio vitale viene però spezzato dalla zia di Noriko che pensa ad un possibile matrimonio per la nipote in modo da non farla sembrare una poco di buono agli occhi degli altri, ma sia Noriko che Shukichi vorrebbero in realtà mantenere quell’equilibrio destinato a cadere.

La trama, come spesso accade nella filmografia di Ozu, è molto semplice e tratta di temi realistici in cui chiunque si può immedesimare rendendo la storia interessante e catturando fin da subito lo spettatore.  In realtà le opere del regista e in particolare Tarda Primavera, raccontano solo apparentemente storie tranquille ma in realtà, nascoste dietro questa semplicità, si trovano le incertezze della vita in continua evoluzione accompagnate da una triste e malinconica crescita che porta con sé la speranza di una vita nuova. Sceglie di non puntare sulla drammaticità in primo piano ma piuttosto di nasconderla attraverso scene che lasciano allo spettatore un piacevole retrogusto, riprendendo in parte le modalità di Chaplin e Keaton che lo avevano ispirato.

Questa peculiarità sarà la firma inconfondibile utilizzata spesso del regista per raccontare semplici storie quotidiane, accompagnate da temi malinconici che riguardano nuclei familiari.

Quest’ultimo è un tema centrale nelle opere del regista e questa pellicola ne è l’esempio perfetto, infatti Ozu sosteneva che l’amore, per come lo si intende generalmente, non gli interessava veramente, evidenziando così un attaccamento alla famiglia e all’amore tra i membri che la compongono. Tutto ciò rende la sua opera parzialmente autobiografica nel descrivere i rapporti dei vari componenti della famiglia: padre e figlia finiscono per fare scelte che lasciano l’amaro in bocca solo per amore verso l’altro.

Proprio a questo proposito il lavoro degli attori è fondamentale, da una parte Noriko risulta essere sempre allegra finché non si parla di matrimonio e quindi di cambiamento, dall’altra Shukichi sembra quasi sforzarsi di rimanere sorridente per il bene della figlia ma lasciando intendere una enorme amarezza.

Lo stile minimalista e lo sfondo di un Giappone tra passato e futuro

Oltre alla narrazione anche la messa in scena risulta minimalista ma nasconde a sua volta una complessità e una maestria fuori dal comune. Ciò si nota soprattutto dall’utilizzo della macchina da presa, che con la sua staticità mette in scena composizioni precise fatte di un certo senso della geometria, e dal posizionamento strategico della telecamera (spesso posizionata in basso).

Quando poi si passa alle interazioni tra i personaggi la macchina da presa si sposta frontalmente e gli attori sembrano guardare lo spettatore rendendo il tutto estremamente immersivo e spezzando un pò la tranquillità delle sequenze precedenti.

A fare da sfondo ci sono le bellissime inquadrature del Giappone tanto caro al regista che portano sulle spalle il peso del cambiamento, infatti il paese è stato da poco distrutto dalla seconda guerra mondiale e si vedono i primi segni dell’occidentalizzazione portata dagli Stati Uniti, basta pensare all’insegna della Coca Cola che viene mostrata proprio in contrasto alle strade “pulite” del Giappone oppure alla citazione dell’attore americano Gary Cooper.

Questa manifestazione del cambiamento riassume perfettamente il rapporto dei personaggi, infatti la zia che vuole trovare marito alla nipote rappresenta il passato e le tradizioni talvolta esagerate, mentre Noriko rappresenta la nuova veduta, il futuro che si slega dalle tradizioni che la tengono attaccata al passato. Queste due facce vengono unite dalla figura di Shukichi (la chiave di svolta), che capisce il bisogno della zia di ritrovare un passato distrutto dalla guerra e anche quello di cambiamento di Noriko, nonostante entrambi siano a loro agio nella quotidianità. In questo modo il cambiamento rappresenta una speranza di rinascita per il paese che viene mostrato in crescita con l’abbondanza di cibo, ma soprattutto per Noriko, che nonostante non voglia lasciare quel piccolo mondo in cui viveva deve accettarne uno nuovo per poter essere realmente felice.

Ozu mette in scena così una sorta di sacrificio per Shukichi che rappresenta sia il vecchio che il nuovo, sia una montagna che un treno, sia un tempio che un palazzo, andando al di là di ogni divisione culturale e geografica attraverso il semplice atto di sbucciare una mela.

Fonti: IMDB, libro di Donald Richie su Ozu.