Se l’ultima inquadratura di Dazed and Confused (1993), una strada in salita da cui l’orizzonte è escluso, simboleggiava la scelta cruciale dei protagonisti di cogliere l’attimo mettendo da parte i pensieri riguardo il futuro, la scena di apertura di SubUrbia (1996) ne è un’antitesi. Le sognanti note di “Slow Ride” dei Foghat, che accompagnavano il senso di assoluta liberazione dai dogmi della società opprimente degli adulti, lasciano il posto a quelle dolenti di “Town Without Pity”, sopra le quali scorre una Austin periferica e semi-abbandonata, dove l’orizzonte non è nascosto, ma del tutto assente.
Tratto dall’omonima pièce teatrale di Eric Bogosian (anche sceneggiatore del film), SubUrbia rappresenta il primo tentativo da parte di Richard Linklater di adattare un soggetto non originale (e non scritto da lui). Tuttavia, il film è ricolmo di temi molto vicini al regista di Houston, quali la repressione dei giovani da parte di una società che li vuole conformi ai costumi ordinari, l’importanza della fiducia in se stessi e nei propri mezzi e, soprattutto, il peso e la rilevanza di un sogno nella vita di un teenager.
E sono proprio queste tematiche a “risvegliare” i giovani liceali in Dazed and Confused, a spingerli oltre le frontiere immaginarie e a portarli a sfidare “il potente”. In SubUrbia però, queste hanno una funzione completamente diversa. I protagonisti del film sono infatti dei reietti, lasciati indietro perché non sono mai riusciti a compiere quel passo decisivo che gli avrebbe permesso di liberarsi e che li ha invece confinati ad una stasi permanente.
“Town without pity”: I personaggi e il loro spazio
Jeff (Giovanni Ribisi) è un ventenne irascibile e pieno di incertezze riguardo il proprio futuro. Diplomato da più di tre anni, ha da poco lasciato il college. Trascorre le sue giornate nel retro di un minimarket pakistano insieme alla sua ragazza, Sooze (Amie Carey), ai suoi due migliori amici, Buff e Tim (rispettivamente Steve Zahn e Nicky Katt, attore feticcio di Linklater), e Bee Bee, un’ amica di Sooze da poco uscita da una clinica psichiatrica. Le loro conversazioni, varie e spesso inconcludenti, si concentrano per lo più sulle delusioni che la vita gli ha rifilato e sui sogni non ancora realizzati. Ma questi sogni sono un mero oggetto di discorso, progetti belli da raccontare e che forniscono una speranza illusoria a chi li racconta. A scuotere la stagnante routine del gruppo sarà il ritorno di Pony (Jayce Bartok), un ex compagno di scuola diventato una rockstar famosa, che porterà a galla rancori inespressi e farà sorgere domande cruciali riguardo il loro presente e futuro.
Il film si svolge nell’arco di una sola notte, seguendo la poetica linklateriana dello scorrere del tempo. Ancora una volta, non sono i momenti cruciali ad essere protagonisti, ma ciò che accade tra di essi. È il viaggio (psicologico e non) compiuto dai personaggi verso una decisione definitiva riguardo alle proprie vite.
Con estrema sincerità, Linklater porta in scena questi personaggi senza mai giudicarli veramente, preferendo piuttosto mostrarne le complessità e suscitando compassione per le loro esperienze. Proprio come in Dazed and Confused, in cui descriveva anche adulti repressori a loro volta oppressi da adolescenti, il regista suggerisce che l’odio e la rabbia interna dei suoi personaggi derivano dal non aver vissuto appieno i loro anni migliori o dall’incapacità di liberarsene definitivamente.
Sooze vorrebbe trasferirsi a New York per fare l’artista, anche a costo di vivere per strada. Jeff, d’altro canto, non ha la minima intenzione di affrontare il futuro senza una meticolosa pianificazione a monte dello stesso. E questo braccio di ferro, che è anche il principale argomento di tutti i loro scontri, è solo un riflesso della reale ragione della loro eterna stasi.
Privati della possibilità di esprimersi per ciò che sono nel profondo, sono stati progressivamente repressi da quella stessa società che si erano ripromessi di combattere e relegati in un eterno limbo tra l’adolescenza e l’età adulta. Una “comfort zone” mai realmente confortevole, ma che gli fornisce la sicurezza necessaria per non fare il passo successivo. “È rimasto tutto uguale qui!”, osserverà infatti Pony una volta tornato a casa. Ma ad essere immutato non è il solo quartiere, ma i suoi abitanti, fermi nel tempo di un’adolescenza che se ne è andata troppo in fretta lasciandoli soli e disorientati su ciò che sarà il futuro, in balia di loro stessi e delle loro insicurezze.
E tutta la loro rabbia, diretta verso un nemico indistinto e più grande di loro, si riverserà continuamente su Nazeer (Ajay Naidu), proprietario del minimarket che vorrebbe solo un po’ di quiete.
E ognuno di loro difenderà a spada tratta quella stessa nicchia nella quale è stato costretto, vietandone l’accesso a chiunque non gli appartenga. Un preludio di ciò che saranno da adulti: inibiti, rancorosi e che tenderanno con violenza all’esclusione del diverso, volti al frenare sul nascere ogni forma di espressione che non saranno in grado di comprendere. L’invidia di Jeff nei confronti di Pony (che sfocerà progressivamente in odio) riflette proprio l’ostilità degli adulti verso gli adolescenti in “Dazed and Confused”.
Tim/Wooderson
Tim ricopre qui una funzione simile, seppur opposta, a quella di Wooderson, (Matthew McConaughey) in Dazed and Confused: entrambi i più anziani dei rispettivi gruppi, si trovano sospesi tra l’adolescenza e l’età adulta ma con grande consapevolezza di chi sono nel profondo, sapendo anche di essere fonte d’ispirazione per i più giovani. Ma mentre Wooderson trae energia dalle persone che lo circondano, elargendo vere e proprie lezioni di vita, Tim è al contrario violento ed estremamente rancoroso. Non ancora trentenne, è già un veterano di guerra e reduce di un insieme di esperienze traumatiche che lo hanno gradualmente inasprito. Preferisce puntare il dito verso il più debole, manifestando più volte comportamenti razzisti. Accusa infatti Nazeer e la sua famiglia di essere la causa principale delle sue disgrazie definendoli parassiti, quando in realtà è Tim stesso ad essersi autoinflitto la ferita che lo ha portato al congedo dall’esercito e a ricevere un assegno mensile. Buff tra tutti, estremamente infantile, finirà per emularne i modi.
Arrivi e partenze
Il vero terrore per loro risiede nell’ignoto, nell’incertezza di ciò che li attende oltre i confini di quel polveroso retro del minimarket, come se la morte fosse in agguato. Alla fine, Jeff decide di non sporgersi, convinto da Tim della presenza di un cadavere all’interno di un camioncino abbandonato. Ma quel cadavere non c’è mai stato. Forse è altrove, forse proprio in quel retro che credevano tanto sicuro. Sarà il loro egoismo e la loro ipocrisia che li porterà a voltarsi reciprocamente le spalle, tradendo così l’idea di quel senso di comunità e di fratellanza più volte insinuato.
In conclusione, se l’automobile di Randall in Dazed and Confused si era finalmente lasciata alle spalle un futuro già scritto, quella dei protagonisti di SubUrbia non è mai realmente partita. Ma nel 2016, dopo esattamente vent’anni, Richard Linklater tornerà a raccontare il viaggio di quell’auto che non solo è riuscita a partire, ma è anche arrivata a destinazione (Everybody Wants Some!!, 2016).

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