Era il 2016 quando la prima stagione di Stranger Things aveva scosso il mondo della serialità televisiva, configurandosi come punta di diamante delle produzioni Netflix nonché primo vero fenomeno seriale targato dal colosso dello streaming ad arrivare in Italia. L’opera, creata dalla mente dei Fratelli Duffer, cavalcava la wave nostalgica di omaggio agli anni ‘80 che di lì a poco avrebbe invaso definitivamente il piccolo e il grande schermo (e di cui abbiamo già raggiunto il punto di saturazione). Pur non trattandosi di un capolavoro come da molti sbandierato, in quanto costruito come un patchwork di elementi tratti da varie altre opere senza creare nulla di innovativo e rivelandosi come l’esempio perfetto del pop corn movie applicato al mondo seriale, la prima stagione aveva avuto il merito di costruire una narrazione coerente e molto attenta alla caratterizzazione dei personaggi, riuscendo, tra le altre cose, a rilanciare la carriera – apparentemente finita – di star come Winona Ryder e a portare un successo planetario ai giovani protagonisti, su tutti Millie Bobby Brown e Finn Wolfhard. Al primo capitolo erano seguite due stagione molto dimenticabili, in particolar modo la seconda, realizzata in fretta e furia dopo il grande successo iniziale e risultando, di conseguenza, una brutta copia della prima; la terza, pur introducendo un apprezzabile cambio di tono, soffriva di alcuni buchi di sceneggiatura e di una richiesta di sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore sempre maggiore, quest’ultimo aspetto riferito più alle azioni degli umani che alla componente sovrannaturale. 

Si arriva dunque a questa quarta stagione dopo tre anni di attesa a cui corrisponde un salto temporale nella storyline della serie di 12 mesi. Il titolo dell’articolo si riferisce al fatto che questa recensione non può che risultare incompleta a causa della scelta di Netflix di spezzare la stagione in due parti, programmando l’uscita degli ultimi due episodi a distanza di un mese dagli altri sette. Infatti, la tendenza di Netflix di rilasciare gli episodi di una stagione tutti in un colpo solo, dopo aver contribuito al suo successo nei primi anni, si è rivelato negli ultimi tempi un suicidio commerciale, dovuto all’esaurimento in breve tempo delle discussioni riguardo alle opere causato dal binge watching degli utenti. Questo tentativo maldestro di prolungare l’attenzione verso la serie non ha alcuna giustificazione narrativa, ed è dettato da pure esigenze di marketing, con l’episodio 7 (della durata monster e ingiustificata di 1 ora e 40 minuti) che si chiude con tutti i cliffhanger possibili e immaginabili tipici di un episodio di metà stagione.

Con questo quarto capitolo della saga i Fratelli Duffer provano ad alzare la posta in gioco tentando di costruire una narrazione su più larga scala, spargendo per il mondo i vari personaggi: dall’ormai celebre Hawkins fino alla Russia, passando per la California, rompendo in questo modo l’unione tra i protagonisti che aveva contribuito a costruire il successo della serie. Se da una parte è apprezzabile il tentativo di evoluzione messo in atto, dall’altra le varie storyline proposte non risultano equilibrate, con la sola trama ambientata ad Hawkins a essere capace di interessare veramente, risaltando in particolare il personaggio di Max. Solo qualche guizzo è riscontrabile in quelle dedicate a Eleven e Hopper, come se gli showrunner si fossero dimenticati di una parte dei personaggi, in primis il gruppo californiano, con Will ridotto ormai a mero soprammobile. A complicare ulteriormente la situazione contribuiscono i nuovi arrivati, caratterizzati in maniera più o meno riuscita. Eddie Munson, interpretato da un bravo Joseph Quinn, pur rispettando gli stereotipi del freak belloccio dal cuore d’oro, strappa più di una risata e convince, così come Argyle, introdotto come “linea comica della serie” e capace di creare spassosi siparietti di puro nonsense con l’amico Jonathan, quest’ultimo sacrificato nella sua caratterizzazione solo a favore di una possibile riapertura nella relazione amorosa tra lui e Nancy di cui onestamente non si sentiva minimamente il bisogno. Convincono meno nella scrittura il personaggio interpretato da Jamie Cambell Bower e il personaggio di Dmitri, portato in scena però da un bravo Tom Wlaschiha, lo Jaqen H’ghar di Game of Thrones nonché interprete di uno dei protagonisti del nostrano L’incredibile storia dell’Isola delle Rose di Sidney Sibilia, a cui sono affidate le principali interazioni con Hopper, da cui nascono dei momenti di profonda intimità molto riusciti, grazie al sempre ottimo lavoro sul personaggio di David Harbour. Ma la vera punta di diamante tra tutti i nuovi arrivati è sicuramente Jason Carver interpretato da Mason Dye, capitano della squadra di basket, il classico bello e popolare americano dallo spirito eroico, utilizzato dai Duffer per criticare la società americana nella sua essenza. Il suo personaggio, lo stereotipo della bontà a primo impatto, non si fa problemi a utilizzare i morti di Hawkins per costruire monologhi ispiratori che possano portare la sua squadra a vincere il campionato, aizza le superstizioni e l’ignoranza del popolo americano medio contro il diverso, contro coloro che non rientrano nelle convenzioni sociali. Infine il nuovo villain, Vecna, funziona a livello visivo e sembra ispirato all’immaginario di Lovercraft e da quello di Hellraiser, ma la dinamica delle sue origini, le quali sono costruite come un “grande” colpo di scena che risulta prevedibile con grande anticipo, presenta non poche problematiche a livello di scrittura

A livello di fonti di ispirazione, dopo aver attinto a piene mani in passato da film come i Goonies, Stand by me, e dal mondo di Stephen King con particolare riferimento a IT e alle opere di George Romero, con questa quarta stagione ci si sposta verso una violenza più esplicita, guardando ai film del maestro dell’horror Stuart Gordon, il cult The Ring e Il silenzio degli Innocenti, ma soprattutto a Nightmare – Dal profondo della notte di Wes Craven, citato nelle sequenze delle uccisioni da parte di Vecna e in un personaggio secondario interpretato da Robert Englund, il celebre Freddy Krueger dell’originale.

In generale in queste nuove puntate viene dato maggiore spazio all’affascinante Sottosopra, realizzato quasi sempre con grande cura nella CGI ad eccezione della sequenza finale dell’episodio 7 che mostra tutti i limiti di budget della serie – riscontrabile anche nella realizzazione della piccola Eleven nei numerosi flashback. Non mancano i momenti ottimamente costruiti attraverso un sapiente uso del montaggio parallelo, come la sequenza della prima puntata con protagonista i Sinclair, o con l’utilizzo diegetico della musica, come nella celebre scena della terza stagione con la canzone Neverending Story di Limahl, a cui in questo caso fa da contraltare il momento con protagonista Running Up That Hill di Kate Bush che contribuisce alla riuscita del quarto episodio, il migliore di quelli usciti fino ad ora. Se da una parte vengono riproposti gli elementi che hanno contribuito alla fortuna della serie, dall’altra il prodotto si porta dietro le solite ingenuità e problematiche che l’hanno spesso caratterizzata, con combinazioni di eventi che avvengono per pura coincidenza e convenienza, il tutto condito da pochissimo coraggio nel sacrificare personaggi principali nonostante gli eventi pericolosissimi a cui questi prendono parte, o con sequenze infinite di spiegazioni, come se gli sceneggiatori si fossero dimenticati del fatto che le serie tv, come il cinema, dovrebbero costruire la narrazione attraverso le immagini e non -soltanto- con le parole

Pur portando con sé la sensazione di “brodo allungato” a causa anche della durata titanica dei vari episodi, a conti fatti questa prima parte della quarta stagione mostra un miglioramento produttivo e qualitativo in generale, confermando Stranger Things come l’esempio perfetto di pop-corn serie, con protagonisti in media ben costruiti e creata con l’obiettivo del puro intrattenimento, da cui è corretto non aspettarsi più di questo. Il giudizio definitivo è rinviato a luglio.

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Luca Orusa, Caporedattore