Dando uno sguardo allo scenario dell’animazione negli anni ‘90 ci si trova quasi costretti a limitare il nostro sguardo agli Stati Uniti: in Italia i tempi di Carosello e dei film di Bruno Bozzetto erano ormai un lontano ricordo, anche la nascente Lanterna Magica di Enzo d’Alò produce opere gradevoli ma non in grado di restare impresse nella memoria del grande pubblico. Nel resto d’Europa la situazione non è molto diversa, in alcuni casi, infatti, gli studios vengono colonizzati dalle major hollywoodiane, diventandone succursali, allo stesso tempo altri studi con una grande potenza creativa non riescono ad avere risultati commerciali convincenti. Quanto al Giappone, i capolavori in uscita in tv e in sala erano ben lontani dal raggiungere la fama internazionale.
I Walt Disney Animation Studios dominano come mai prima d’ora. Il cosiddetto Rinascimento Disney, esploso nel 1989 con La Sirenetta (John Musker e Ron Clements) poi proseguito con opere come La Bella e la Bestia (Gary Trousdale e Kirk Wise, 1991) e Aladdin (Musker e Clements, 1992) mostra al pubblico un connubio quasi perfetto tra i suoi elementi. Storie semplici e dal sapore universale, protagonisti determinati a coronare i propri sogni (amorosi e non), spalle comiche popolari, antagonisti carismatici, colonne sonore di Alan Menken e soci profondamente debitrici di Broadway, e un comparto artistico che, tra graphic design, animazione e scenografie risulta immediato ma allo stesso tempo raffinatissimo.
Dopo aver raggiunto il proprio apice commerciale con Il Re Leone (Roger Allers e Rob Minkoff, 1994) la seconda fase del Rinascimento appare inevitabilmente calante con il seriosissimo Pocahontas (Mike Gabriel e Eric Goldberg, 1995), l’epico melodramma Il Gobbo di Notre-Dame (Trousdale e Wise, 1996), il brioso Hercules (Musker e Clements, 1997), l’avvincente Mulan (Tony Bancroft e Barry Cook, 1998) e il canto del cigno Tarzan (Kevin Lima e Chris Buck, 1999), ultima opera prodotta prima di addentrarsi in un periodo di sperimentazioni più o meno riuscite. Tuttavia siamo ben lontani dal parlare di crisi. la Disney rimane infatti egemone.
L’astro nascente Pixar, che per la Disney gioca un ruolo da pericolosa alleata pronta a spiccare il volo, con il coprodotto Toy Story – Il Mondo dei Giocattoli (John Lasseter, 1995) primo film animato completamente in CGI, dà il via alla più grande rivoluzione nel campo dell’animazione dai tempi di Biancaneve e i Sette Nani (1937).
La concorrenza in molti casi è impotente. La Warner Bros. non ha più la spinta propulsiva dell’epoca dei cortometraggi, il reparto animazione sfrutta fino all’osso i personaggi di cui possiede il copyright (dai sempreverdi Looney Tunes e Tom & Jerry fino a Scooby-Doo e gli altri personaggi targati Hannah & Barbera passando per i supereroi DC) in decine di serie, film e special rivolti prevalentemente al mercato televisivo, con risultati più o meno riusciti. I pochi esempi cinematografici rilevanti sono il bizzarro cult Space Jam (Joe Pytka, 1996) e un vero e proprio underdog come Il Gigante di Ferro (Brad Bird, 1999) flop al botteghino ma enorme successo di pubblico e critica negli anni successivi.
L’autore che nel decennio precedente era riuscito maggiormente a mettere in difficoltà la Disney proponendo personaggi perfetti in atmosfere più cupe in opere come Brisby e il Segreto di NIMH (1982), Don Bluth, nei primi ‘90 inanella una serie di insuccessi clamorosi, riprendendosi solo parzialmente nel 1997 con il discusso, e discutibile, Anastasia, prodotto da una 20th Century Fox che cerca di ritagliarsi uno spazio nel mercato animato.
Nella seconda metà degli anni ‘90 tuttavia assistiamo alla nascita dello studio che almeno per i 15 anni successivi è stato il contraltare perfetto alla raffinatezza Disney, nascosto da un logo angelico e rassicurante troviamo un tripudio di umorismo adulto, citazionismo sfrenato, riferimenti sessuali nemmeno troppo velati e personaggi che nella maggior parte dei casi non sono disegnati per vendere peluche e tazze: l’irriverente e ambiziosa Dreamworks SKG.
S come Steven Spielberg, imperatore del cinema pop da venti anni che tramite la sua Amblin aveva già tentato qualche avventura animata come Balto (Simon Wells, 1996);
K come Jeffrey Katzenberg, uno dei salvatori di una Disney moribonda negli anni ‘80, dirigente sicuramente capace ma dai modi bruschi e dai difficili rapporti con i reparti artistici (celebre la sua richiesta di rendere la scenografia de La Bella e la Bestia “più francese, tipo Botticelli”), accusato di voler omologare ogni racconto ad una storia d’amore alla Romeo e Giulietta, e sentendosi insidiato nelle posizione di vertice che occupava, lascia Burbank sbattendo la porta nel 1994;
G come David Geffen, magnate dell’industria discografica con la fame di lanciare una nuova etichetta.
Dopo alcune produzioni live action, abbiamo nel 1998 l’esordio nell’animazione, con due opere sicuramente diverse ma egualmente dirompenti.
Con Z la Formica (Eric Darnell e Tim Johnson, 1998) troviamo per la prima volta lo scontro diretto con le concorrenti, dato che poco dopo la Pixar manderà nelle sale A Bug’s Life – Megaminimondo (John Lasseter e Andrew Stanton, 1998), film sempre ambientato nel mondo degli insetti con protagonista una formica. Situazioni simili si verificheranno nel 2000, quando La Strada per El Dorado (Bibo Bergeron e Don Paul) condividerà l’ambientazione centroamericana (e il tipo di umorismo) con Le Follie dell’Imperatore (Mark Dindal), e nel 2005 quando Madagascar (Eric Darnell e Tom McGrath) vedrà un gruppo di animali in fuga dallo zoo di Central Park guidati da un leone proprio come nel dimenticabile Uno Zoo in Fuga (Steve Williams). Tuttavia, a parte il setting entomologico Z la Formica e A Bug’s Life hanno ben poco in comune.
Se le formiche Pixar sono azzurre, dai lineamenti morbidi e dall’aria amichevole quelle Dreamworks hanno il colore della terra e riprendono in maniera caricaturale i lineamenti dei loro doppiatori che risultano volutamente sgradevoli. Queste ultime non si muovono in un mondo colorato, l’immondizia che incontrano non viene trasformata in una metropoli a misura di insetto, il film non si apre con una panoramica su un prato verde ma con il protagonista interpretato da Woody Allen impegnato in una seduta psicoterapeutica perché si sente insignificante, non a caso esordisce con “Sa, mia madre non aveva mai tempo per me. Insomma, quando si è il figlio di mezzo in una famiglia di 5 milioni non ricevi nessuna attenzione, voglio dire, com’è possibile..”
Il topos della guerra ci è presentato in maniera differente, nel film Pixar è un pretesto per insegnare al pubblico l’importanza del lavoro di squadra, della fiducia negli outsider, del cervello che supera la forza bruta, in Z in seguito alla battaglia iniziale con le termiti ci viene mostrata la testa decapitata del miglior amico del protagonista (Sylvester Stallone) senza troppe remore. Il finale è lieto in entrambi i casi, la formica reietta conquista il suo posto in una società ristrutturata in senso meritocratico e corona il suo sogno d’amore, ma in Z si continua ad avvertire il sapore dolceamaro dei finali alleniani.
D’altro canto con Il Principe d’Egitto (Brenda Champman e Simon Wells) abbiamo una rottura ancora più radicale. In animazione avevamo visto molte volte adattamenti di fiabe, leggende folkloristiche e miti antichi, con il succitato Hercules uscito l’anno prima, ma mai uno studio d’animazione aveva prodotto un film ad alto budget con soggetto biblico. La storia di Mosè, raccontata nel libro dell’Esodo e già esaltata al cinema da Cecil B. De Mille con I Dieci Comandamenti (The Ten Commandments) nel 1923 e in una nuova versione nel 1956, ci viene raccontata con pochissimi filtri, sufficienti a non sollevare eccessive polemiche tra i fedeli e fermando il racconto al passaggio del Mar Rosso, prima della costruzione degli idoli alternativi al Dio manifestatosi a Mosè e dei 40 anni trascorsi dal popolo ebraico nel deserto. La pellicola ha toni epici, austeri, i dialoghi non sono immediati per un pubblico infantile, la morte e la violenza non vengono nascoste, nemmeno nella famigerata decima piaga. Supportato da scenografie altisonanti e animazioni non eccessivamente dure, da un cast di star come Val Kilmer e Ralph Phiennes e dalla colonna sonora di Hans Zimmer condita dalla hit When You Believe cantata da Mariah Carey e Whitney Houston, il film mostra una una dimensione epica e matura ad un livello che la Disney aveva solo sfiorato con Il Re Leone e Il Gobbo di Notre-Dame.
Ed è il caso di dire che è davvero un peccato il fatto che il film venga spesso sacrificato ad una visione scolastica, su televisioni a tubo catodico poste su carrelli in una situazione familiare a moltissimi studenti quantomeno italiani.
Circostanza in cui troviamo anche Giuseppe, il Re dei Sogni (Rob LaDuca e Robert Ramirez) sorta di prequel direct-to-video del Principe, con budget molto più basso che nonostante la volontà di continuare a raccontare una storia di grande spessore (seppur meno nota) e il coraggio di mostrare una vera e propria scena di molestia sessuale, non ha la potenza visiva e comunicativa del predecessore, risultando di gran lunga meno memorabile.
Le successive opere in animazione tradizionale dello studio risulteranno più incerte, convincendo la dirigenza a concentrarsi sull’animazione in CGI e per breve tempo alle collaborazioni in claymation con la britannica Aardman. La Dreamworks avrà ancora più di un asso nella propria manica.
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