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Se dovessimo considerare la saga di Shrek l’emblema dello studio Dreamworks, non faremmo certo un errore, dato che i film con protagonista l’orco verde, nato nel 1990 dalla fantasia di William Steig e trasportato sullo schermo con le sembianze alquanto singolari del lottatore francese Maurice Tillet, mostrano al loro interno tutte i pregi e i difetti di questo gruppo di artisti: irriverenza, forte presenza della cultura pop in atmosfere inusuali, cast di star, utilizzo della classica struttura del viaggio dell’eroe in funzione decostruttiva, il personaggio protagonista che da reietto riesce a strutturarsi all’interno della società senza snaturare se stesso, provocazioni agli studi rivali, ma anche eccessive strizzate d’occhio al pubblico, malagestione dei personaggi più popolari ed eccessiva ricerca della popolarità. Shrek, croce e delizia, cuore della studio, sarà il volto con cui i ragazzacci di Glendale verranno identificati nel futuro.

E l’inizio del primo Shrek (Andrew Adamson, Vicky Jenson, 2001) presentato a Cannes, con il classico libro delle fiabe disneyano che diventa la lettura da toilette del nostro eroe sulle note di All Star degli Smash Mouth ci fa subito capire che qui non si intende fare finta di niente, non si vuole imitare la concorrenza, si vuole cercare lo scontro aperto per raccontare una fiaba meglio di chi lo ha fatto per tutta la vita, curando il film nei minimi dettagli per essere espliciti evitando guai giudiziari.

L’orco cattivo diventa l’eroe, il nobile destriero è un asino petulante, la principessa Fiona è una scaricatrice di porto, i personaggi classici delle fiabe sono prima privati di ogni decoro e poi trasformati in profughi costretti a invadere la palude del nostro a causa dell’avidità del lord di turno, il quale vive in un castello che sembra quasi una Disneyland brutalista (anche se il logo con la F sembra anticipare in maniera inquiete quello di Facebook). La storia non è particolarmente nuova e alla fine si vuole comunicare al pubblico di andare oltre le apparenze e di accettare il diverso, ma la messa in scena è efficace al massimo, e lo testimoniano il primo Oscar al miglior film d’animazione mai assegnato, riconoscimenti da AFI, BBC e National Film Registry e un posto fisso nell’immaginario collettivo accanto a Topolino e Bugs Bunny

Però con Shrek 2 (Adamson, Kelly Asbury, Conrad Vernon, 2004) abbiamo probabilmente la miglior commedia mai realizzata senza attori in carne ed ossa. L’inizio, come nel primo film accompagnato da una power ballad (Accidentally in Love dei Counting Crows) che ci mostra Shrek e Fiona orrendi e contenti a godersi la loro luna di miele. Le frecciatine alla Disney si trasformano in una dichiarazione di guerra con Fiona che senza troppi problemi lancia la Sirenetta in mare. Il citazionismo della Dreamworks qui raggiunge il suo apice, basti menzionare la parodia del reality show statunitense Cops. E in effetti è l’intera Hollywood il bersaglio del film, il regno di Molto Molto Lontano è la casa dello showbiz fiabesco, la famiglia reale che non accetta Shrek è lo star system che respinge l’outsider, per non rivelare a sua volta le proprie debolezze (il re rospo). Il Principe Azzurro mammone e la Fata Madrina sono due villain riusciti quanto e più di lord Farquaad, per non parlare della nuova spalla comica, quel Gatto con gli Stivali destinato a diventare il secondo volto del franchise. L’intreccio narrativo è più omogeneo, la volgarità eccessiva di cui era stato accusato il primo è ben calibrata, la componente drammatica sentimentale non soffoca il resto, come purtroppo vedremo nei suoi successori, rendendo il secondo capitolo probabilmente il vero capolavoro dello studio della mezzaluna.

In Shrek Terzo (Shrek the Third, Raman Hui, Chris Miller, 2007) vediamo l’orco alle prese con la maturità imminente, sta per diventare padre ed è l’erede al trono di Molto Molto Lontano, ma è determinato a lasciare almeno questo secondo onere ad Arthur, lontano cugino di Fiona, liceale insicuro e bersagliato da chiunque. Il principe Azzurro vuole vendicarsi uccidendo Shrek e conquistando il trono con l’aiuto di tutti i cattivoni della letteratura popolare, il nostro deve difendere quanto ha di più caro riuscendo ad assumersi tutte le sue responsabilità. Prevedibile lieto fine, Arthur è chiaramente il leit motiv tramite cui Shrek comprenderà il suo ruolo e di padre e figura guida con l’aiuto di un Merlino svitato, ma la vicenda non tiene in piedi il film da solo, e la saga sembra avere perso il suo mordente, e si ride davvero poco. 

Nel successivo Shrek e vissero Felici e Contenti (Shrek Forever After, Mike Mitchell, 2010) è evidente che le idee siano finite, il motore principale della trama è di nuovo la volontà di Shrek di fuggire dalla responsabilità di una famiglia asfissiante, per cui stringerà un patto con l’elfo Tremotino (tra l’altro apparso nel film precedente con sembianze diversissime) che gli costerà caro, quindi dovrà lottare per riconquistare la sua famiglia. La storia è semplice ma davvero poco interessante, così come i nuovi comprimari, il tono epicizzante non è smorzato da un umorismo efficace, finendo per annoiare il pubblico (nonostante gli incassi siano stati come al solito redditizi) e convincere lo studio a mettere in congelatore i nostri personaggi, tranne uno.

Il Gatto con gli Stivali (Puss in Boots, Chris Miller, 2011) film da solista del nostro nuovo eroe infatti lo vede impegnato a fare i conti con il suo passato, il suo vecchio amico rivale Humpty Dumpty e la volontà di diventare ricco. Inutile girare troppo intorno, il comparto visivo è abbastanza sgradevole, anche più delle intenzioni solite dello studio, la storia della quest per la gallina dalle uova d’oro è avvincente, ma diretta ad un pubblico veramente giovane, la forza dei primi due film si è esaurita, il desiderio di vendere biglietti e gadget a dismisura prevale, la voglia di rompere nuovamente gli schemi dell’animazione si è rotta, anzi Shrek Terzo, Shrek e vissero Felici e Contenti e Il Gatto con gli Stivali (di cui è previsto un sequel) si assestano perfettamente nel ceto medio dell’animazione commerciale in CGI di quegli anni, condita da decine di special festivi, cortometraggi più o meno riusciti, e tutta una serie di prodotti tv targati Netflix con il faccino del Gatto in copertina, nell’attesa che la Dreamworks si decida a far uscire un nuovo film con protagonista il nostro orco preferito, armato di tutta la sua adorabile rozzezza.

Il film è gradevole ma la struttura fin troppo classica, con il protagonista che vuole tornare a godere le sue comodità ma una volta raggiunto il suo scopo capisce il gusto dell’avventura grazie all’amore e all’amicizia. In ogni caso non basta un grande cast (Hugh Jackman, Kate Winslet, Ian McKellen) a rendere il film memorabile

Il vero peccato tuttavia, sta nella sostituzione totale della claymation “reale” con il suo rendering digitale, sia per venire incontro ai gusti del pubblico sia perché sarebbe stato veramente impossibile gestire un set inanimato con una tale presenza di acqua. L’immagine è più fluida e spettacolare ma assolutamente meno affascinante. La claymation nei primi anni 2000 è sicuramente vintage, e un’eccessiva contaminazione con la CGI, per di più non perfetta come quella a cui ci stava abituando la Pixar, spinge i due studi a non proseguire la collaborazione, nonostante le voci su un eventuale quarto film da contratto, la Dreamworks non sembra coinvolta nello sviluppo del sequel di Galline in Fuga

Negli anni successivi la Aardman continuerà la sua opera di contaminazione tra claymation e CGI con risultati più o meno convincenti. Quanto alla Dreamworks, tra il 2000 e il 2005 aveva tirato fuori un paio di progetti interessanti.

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Nicolò Cretaro, Redattore