“Non troverai mai un covo di feccia e malvagità peggiore di questo”
Per riassumere l’enorme successo di Guerre Stellari basterebbe citare la sequenza sullo spazioporto di Mos Eisley che apre il secondo atto del film: la panoramica sullo spazioporto accompagnata dalla battuta di Ben Kenobi; le strade della città in cui si ha un primo accenno ai poteri della Forza; la cantina abitata dalla variopinta folla di umani e alieni che la abitano, ognuno con il proprio look distintivo.
Della semplicità archetipica del plot di Guerre Stellari si è sempre parlato, ma il film e la saga che ne è scaturita sono irrimediabilmente sinonimo delle loro ambientazioni; dei mondi visitati dai protagonisti, ma anche degli ambienti e delle comparse che da sempre suggeriscono l’idea di un universo molto più grande rispetto alle singole storie degli Skywalker. D’altronde, la semplice universalità della storia da sola non basta per spiegare la presa che il film ha avuto sul pubblico e, soprattutto, l’immensa quantità di storie derivate.
UNA GALASSIA ANTICA: SCENARI FONDATIVI NELLA TRILOGIA ORIGINALE
Tutto ha origine, come sempre, dai bozzetti preparatori per visualizzare le prime idee, il feeling della storia; i bozzetti a opera di Ralph McQuarrie, i veicoli disegnati da Colin Cantwell -già dietro gli effetti visivi di un altro film di fantascienza di discreto successo chiamato 2001: Odissea nello spazio– e costumi di John Mollo (di cui abbiamo parlato QUI) restituiscono l’idea generale di un “used future”, di un futuro vecchio e usato; di un parziale progresso tecnologico rispetto al nostro mondo reale, ma segnato dal tempo e dalle disavventure del passato e intriso di mito e Storia.
Il segreto del successo di Star Wars è già tutto qui: una galassia nuova e vecchia, vissuta di tante storie raccontate e ancora da raccontare, che sembri davvero viva come il nostro mondo; grazie anche all’apporto della divisione della Lucasfilm Industrial Light and Magic, responsabile degli effetti speciali.
A questo contribuisce anche la ricerca di location per le riprese in esterni: dai panorami desertici della Tunisia ai resti archeologici Maya al ghiacciai norvegesi, la galassia della trilogia originale è innovativa ma dalle connotazioni familiari. Questa estrema varietà di ambienti rende l’idea di una galassia viva, molto più di qualsiasi saga di fantascienza coeva: franchise di fantascienza altrettanto popolari come Star Trek oppure Doctor Who peccano in questo senso, restituendo allo spettatore immagini di pianeti alieni realizzate con grande ingegno e altrettanta scarsità di risorse.
Paragonare l’enorme budget impiegato per Guerre Stellari ai limitati mezzi di queste classiche serie fantascientifiche è forse ingiusto, ma salta all’occhio la maestosità delle sue ambientazioni e la dimensione larger than life della galassia lontana lontana.
SPACE OPERA PATINATA: LA GALASSIA DIGITALE DELLA TRILOGIA PREQUEL
L’idea alla base della trilogia prequel cominciata con La minaccia fantasma nel 1999 era una che George Lucas si portava dietro già da parecchi anni: mostrare la fine di quel mitico passato appena accennato nel primo Guerre stellari, il tramonto dell’età degli eroi e la caduta del padre di Luke Skywalker, Anakin, e la sua conversione al lato oscuro.
È l’idea di rivisitare la fine di “quell’ età dell’oro”, assieme allo sviluppo degli effetti speciali e della CGI – nonché il budget maggiore – a convincere George Lucas a confezionare un apparato visivo più curato e meno “used”. I set fisici e le riprese dal vivo (tra cui di nuovo i set in Tunisia per Tatooine, la reggia di Caserta per gli interni su Naboo e un Etna in piena eruzione per il background di alcune inquadrature di Episodio III) non mancano, ma la parte del leone la fanno le ambientazioni ricreate su sfondi in blue screen (si contano più di 800 personaggi e 50 ambientazioni ricreate in CGI).
E se molta di questa creatività appare oggi invecchiata male per il predominio di VFX e immagini create in CGI -alcune inquadrature tradiscono una prospettiva fasulla perché ricreata a posteriori-, è comunque innegabile la creatività impiegata nel dipingere mondi sempre diversi e sempre nuovi.
E l’operazione compiuta da George Lucas con la trilogia prequel è in parte paragonabile ai risultati (di maggior successo) raggiunti da James Cameron e il suo team con Avatar: la creazione di un intero universo digitale, che alzasse lo standard produttivo di ciò che era possibile creare quasi da zero con la sola CGI. Dal punto di vista puramente artistico la resa può essere discutibile; ma questo tipo ha plasmato buona parte dell’immaginario visivo dei blockbuster odierni.
VECCHI MONDI, NUOVO PUBBLICO: LA SENSIBILITÀ VISIVA AGGIORNATA DELLA TRILOGIA SEQUEL
Riprendere la saga di Star Wars trentadue anni dopo la sua conclusione con Il Ritorno dello Jedi ha rappresentato una sfida ardua anche dal punto di vista visivo. L’inevitabile dilemma in fase di pre-produzione è stato tra la creazione di ambientazioni digitali come nella trilogia prequel, o spingere verso una maggiore concretezza.
Con Il Risveglio della Forza, lo sforzo combinato del production designer Rick Carter, il VFX art director James Clyne e il concept artist Ian McCaig (che ha contribuito a tutta la trilogia prequel, compreso il design del villain Darth Maul) è stato indirizzato verso la seconda opzione: per recuperare l’amore dei fan in parte perduto con la (al tempo) criticatissima trilogia prequel, era fondamentale tornare a ciò che ha reso speciale la trilogia Originale, cioè quanto menzionato poco fa, ovvero una galassia che fosse concreta, realistica e tangibile, nuova e familiare allo stesso tempo.
Le due ambientazioni più memorabili della trilogia sono non a caso il pianeta Ach-To, (riprese in esterni nell’isola di Skellig Michael in Irlanda) e la sala del trono di Snoke (interni nei Pinewood Studios in Regno Unito), entrambe protagoniste del secondo capitolo della trilogia Gli Ultimi Jedi ed entrambe estremamente indicative della direzione intrapresa: ambientazioni che servono la storia ma che richiamano consapevolmente il passato del franchise.
Richiamo al passato che riecheggia l’intero impianto tematico di questa trilogia: una rilettura di eventi noti, la riproposizione del mito a una nuova platea di ascoltatori.
TUTTO IL PALCOSCENICO È UN MONDO: LE SCENOGRAFIE VIRTUALI DI THE MANDALORIAN
Per la lavorazione di The Mandalorian, la prima serie live-action del franchise, il regista e showrunner Jon Favreau ha voluto portare una tecnica simile a quella utilizzata per il suo remake de Il Libro della Giungla che combinasse set fisici, illuminazione interattiva e realistica e sfondi in blue screen per un effetto più realistico. Nasce così la tecnologia StageCraft sviluppata da Industrial Light and Magic, che combina set fisici e sfondi (su video walls al LED) realizzati con il motore grafico Unreal Engine sviluppato da Epic Games, utilizzato in numerosissimi videogiochi.
Il risultato è forse il punto di contatto ideale tra la trilogia Originale e quella Prequel, in grado di restituire un ambiente maggiormente concreto e immersivo e allo stesso tempo incredibilmente vasto.
Una prova che le ambientazioni non arricchiscono solo l’universo di Star Wars, ma che sfidano costantemente i limiti di ciò che è possibile realizzare per i mondi di finzione, al cinema e in televisione.
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