Nel suo ultimo film The Fabelmans (2022), il cineasta Steven Spielberg fa pronunciare a Mitzi Fabelman (Michelle Williams), madre del protagonista Sammy (Gabriel LaBelle), queste parole capitali: “I film sono sogni che non dimenticherai mai”. La meraviglia che si prova quando si entra nella sala cinematografica, quando si vede un film per la prima volta o per la centesima, quando si tiene il fiato sospeso tra una scena e l’altra: questo stupore è racchiuso non solo nella frase di Mitzi, ma anche in un lungometraggio attraverso il quale Spielberg ha saputo farci entrare nella sua mente di regista, sceneggiatore e, soprattutto, di cinefilo perennemente meravigliato.
La carriera di Steven Allan Spielberg, nato a Cincinnati il 18 dicembre 1946, inizia con una macchina da presa 8mm e un piccolo studio di montaggio situato nella sua cameretta di bambino: da allora, la sua produzione artistica è andata evolvendosi nel corso dei decenni, abbracciando, soprattutto, le innovazioni tecnologiche che hanno fatto breccia nell’industria hollywoodiana. Pur rimanendo fedele alle sue radici, Spielberg ha saputo cogliere con lungimiranza le possibilità artistiche offerte dalla tecnologia declinandole all’interno di un’opera filmica complessa e sfaccettata che spazia, con sapienza, da un genere all’altro.
Dall’invisibilità alla visibilità: squali meccanici e dinosauri in CGI
È ben nota la travagliata storia produttiva del film che ha segnato una svolta decisiva nella carriera di Steven Spielberg. Nel 1975, in 159 giorni, il regista di Cincinnati realizza Lo squalo, lungometraggio che s’inserisce a pieno titolo nella sensibilità della New Hollywood che rigetta i modelli narrativi tradizionali, cogliendo le nuove esigenze di registi, desiderosi di imporre la propria marca autoriale, del pubblico, e della società immersa nello spirito della controcultura e della ribellione verso i canoni impartiti dalla generazione precedente. Lo squalo, in particolare, consente allo spettatore di incorporare la prospettiva del predatore che assedia la cittadina balneare dell’Isola di Amity, nel New England: accompagnato dalle inquietanti note da Oscar del compositore John Williams, il terribile squalo bianco segna panico e morte fra turisti e abitanti. Eppure, dello squalo in carne e ossa si vede poco e niente: i tre squali meccanici realizzati dal dipartimento artistico accusano diversi malfunzionamenti durante le riprese; emblematico il giorno del collaudo, durante il quale lo squalo si adagia sul fondale poiché il sale aveva corroso la sua struttura meccanica. Ma è proprio da questi problemi che Spielberg riesce a elaborare un personaggio iconico nella storia del cinema: di fatto, nonostante la sceneggiatura preveda una presenza più consistente dello squalo davanti alla macchina da presa, il regista sceglie di far prevalere la sua presenza invisibile, percepibile sia attraverso la soggettiva sia mediante il tema musicale di Williams. In questo senso, Spielberg riesce a declinare i problemi tecnologici entro soluzioni stilistiche e di linguaggio che hanno avuto un consistente impatto nell’immaginario collettivo e nella storia del cinema.
Diciotto anni dopo, Spielberg decide di spingersi oltre nell’uso della tecnologia, impiegando la neonata tecnica della computer-generated imagery della Industrial Light & Magic accanto alla creazione di soggetti animatronici. Con Jurassic Park (1993), il cineasta segna un punto di svolta nell’industria cinematografica, poiché la tecnica della CGI viene per la prima volta fruita in un film ad alto budget subito dopo Tron (Steven Lisberger, 1982), film Disney che per primo tratta la realtà virtuale come cardine della narrazione e impiega la tecnologia della CGI. I dinosauri del Jurassic Park, che si ribellano al loro creatore e fuoriescono dai loro recinti, incarnano tutte le potenzialità dell’animazione in grafica computerizzata, la quale si integra realisticamente con le riprese in live action: tali innovazioni saranno fondamentali per tutti quei prodotti che, ad oggi, caratterizzano i film ad alto budget come le produzioni della Marvel Studios.
Motion Capture
Oltre alla realizzazione di soggetti animatronici, Steven Spielberg ha colto, nel corso della sua carriera artistica, le possibilità offerte da una tecnologia come la motion capture. Pur non essendo annoverato fra i registi che hanno avuto un impatto considerevole nello sviluppo di tale tecnica – come Peter Jackson con la saga de Il signore degli anelli (2001-2003) o Robert Zemeckis con Polar Express (2004) o Beowulf (2007) – il cineasta ha saputo declinare la motion capture per raccontare storie avventurose e fantastiche altrimenti impossibili con le sole riprese in live action. Le avventure di Tintin – Il segreto dell’unicorno (2011), diretto da Spielberg e prodotto da insieme a Peter Jackson e Kathleen Kennedy, è basato su tre albi della serie omonima di Hergé: Il granchio d’oro, Il segreto del Liocorno e Il tesoro di Rackham il Rosso. Progetto approcciato per la prima volta nel 2001, Spielberg, già fan della serie dagli anni Ottanta, sceglie la motion capture per assicurare “integrità creativa” ai personaggi: fondamentali, in tal senso, sono stati i registi James Cameron e Robert Zemeckis, al tempo presenti sul set in quanto esperti del settore, oltre al già citato Jackson.
Cinque anni dopo, Spielberg ritorna a far uso della tecnica, dopo l’esperienza con Tintin, per adattare il celebre romanzo di Roald Dahl GGG – Il Grande Gigante Gentile. Nei panni del protagonista troviamo Mark Rylance, la cui performance viene “catturata” e restituita sullo schermo con estrema fedeltà, mostrando come tale tecnologia sia in costante evoluzione all’interno dell’industria produttiva. La cura dedicata all’integrazione fra personaggi “in carne e ossa” – come la protagonista Sofia Tibbs (Ruby Barnhill) – e i “giganti” concepiti dalla mente di Dahl si sposa con l’atmosfera colorata e sognante che Spielberg infonde al suo lungometraggio, la quale non può che far scature un profondo senso di meraviglia allo spettatore.
La tecnologia come tema di riflessione: la fantascienza
Se Spielberg ha saputo abbracciare le innovazioni offerte dalla tecnologia di decennio in decennio, è innegabile che la stessa sia oggetto di riflessione nella sua produzione artistica. Pur spaziando agevolmente da un genere all’altro, la fantascienza riveste un ruolo speciale nella filmografia del regista di Cincinnati: fra i primi lungometraggi realizzati negli anni Settanta ritroviamo, ad esempio, il cult movie Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), film che narra di un ipotetico primo contatto fra l’umanità ed entità extraterrestri. Lo stesso topos viene ripreso e rielaborato secondo uno stile più maturo in E.T. – L’extraterrestre (1982), nel quale la componente fantascientifica viene declinata in una storia più intima, focalizzata sul rapporto d’amicizia fra l’introverso Elliott (Henry Thomas) e una creatura extraterrestre, i cui animatronici sono stati progettati da Carlo Rambaldi. Un terzo “incontro del terzo tipo” sarà tema del più tardo La guerra dei mondi (2005), remake dell’omonimo film del 1953.
A partire da tale topos, Spielberg si spinge oltre nella sua riflessione sul genere fantascientifico, studiando, in particolare, la relazione tra umanità e tecnica in scenari utopici – o distopici. In A.I. – Intelligenza Artificiale (2001), film basato su un’idea originariamente concepita da Stanley Kubrick, il regista narra l’infelice esistenza di un androide con fattezze di bambino, David (Haley Joel Osment), che viene rifiutato dalla sua famiglia umana di adozione: la sua esistenza sarà votata alla ricerca di un’entità che gli permetta di diventare un bambino vero, in un mondo distopico nel quale intere città sono sommerse dai ghiacci disciolti e l’impiego dei robot viene sollecitato al fine di ridurre la sovrappopolazione.
L’anno successivo, Steven Spielberg realizza Minority Report (2002), lungometraggio con protagonista Tom Cruise nei panni del capitano John Anderton, responsabile della sezione Precrimine, un sistema che, in un futuro prossimo, ha debellato gli omicidi con l’impiego di tre soggetti dotati di poteri extrasensoriali in grado di prevedere potenziali “colpevoli”. Così come A.I., Minority Report analizza il concetto di libero arbitrio – nel primo incarnato dal piccolo David che desidera diventare un essere umano – da parte sia degli esseri umani, sia di coloro che sono dotati di un’intelligenza altra.
Il punto più estremo della riflessione di Spielberg sulla tecnologia si ritrova, infine, nel 2018, quando il regista dirige l’adattamento cinematografico del romanzo Player One di Ernest Cline (2011). Ready Player One segna non solo il punto di alto dell’uso della tecnologia da parte di Spielberg, ma anche la trattazione del tema della realtà virtuale come luogo comunitario in cui ogni essere umano ha la possibilità di incarnare un’identità e una personalità differente. Seppur non abbia avuto una eco ampia nel dibattito critico e produttivo, Ready Player One è non solo un concentrato di effetti speciali e tecnologia CGI, ma anche un sentito omaggio alla cultura pop degli anni Ottanta e Novanta che lo stesso Spielberg ha contribuito a plasmare. E di cui gli siamo infinitamente grati.
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