Per i 100 anni di Columbia ritornano al cinema tutti i film di Spider-Man, da Tobey Maguire a Tom Holland passando per Andrew Garfield. Se la versione recente targata MCU ce la ricordiamo ancora abbastanza bene (in particolare No Way Home, il terzo culminante crossoverone di tutti gli Uomini Ragno) e quella di mezzo forse non vogliamo ricordarla più di tanto, il ritorno in sala della trilogia di Sam Raimi è una splendida occasione per rivivere il fascino del primo supereroe cinematografico moderno e un po’ anche l’infanzia di tutto il pubblico che è cresciuto di pari passo con l’evoluzione del cinecomic.
Il vostro amichevole Spiderman di quartiere
Sono già passati oltre 20 anni dall’uscita del primo formidabile Spider-Man, che veniva appena dopo il fatale 11 settembre ma già manifestava l’avvento dei super-umani per superare il trauma subito dall’Occidente. E il primo film funzionava grazie alla somma di ingredienti singolarmente perfetti: il casting azzeccatissimo in ogni ruolo e gli effetti digitali prematuri ma già realizzati ad arte, il tono leggero ma serio mediato dal fumetto, una colonna sonora epica, e, soprattutto, una sceneggiatura ineccepibile, che non solo traduceva al cinema un linguaggio diverso, quello grafico del fumetto, ma ne plasmava uno completamente nuovo, quello del cinecomic.
Appoggiandosi sulle tavole degli anni ‘60 scritte da Stan Lee e disegnate da Jack Kirby, Sam Raimi realizza un prodotto capace di trasferire le palpitazioni bidimensionali e retrò del fumetto attraverso l’estetica e l’immaginario collettivo del 2000. I momenti iconici della genesi del personaggio (il morso di ragno e lo scontro nella gabbia, la morte di zio Ben, i criminali da strapazzo, ma anche la rissa nella scuola di Peter Parker e l’eterna cotta per Mary Jane) sono così reimmaginati con uno stile visivo fresco ed elettrizzante nella New York degli anni in cui New York era un’icona cinematografica senza pari. E lo script di David Koepp mescola generi e toni, fra teen, romance, origin story doppia (dell’eroe e del villain), action, sci-fi, e persino qualche nota di gotico.
Da un grande potere…
Sembra che già negli anni ‘90 James Cameron realizzò il trattamento per un film sull’Uomo Ragno della Marvel. Secondo le indiscrezioni questo immaginava quasi un body horror sulle trasformazioni fisiche e biologiche di un adolescente, e non semplicemente come la trasposizione del fumetto. In una versione più accessibile, il risultato è lo Spider-Man di Sam Raimi, nel quale chiunque può identificarsi. Perché, al di là dei superpoteri, Peter Parker è una persona comune, che, come tutti, affronta le sue lotte quotidiane ricorrendo alla parte migliore di sé. Il vero potere del fumetto è la sua vena democratica e il suo appeal condivisibile, e tutto questo è rispettato nel film del 2002, e nelle sue arie newyorkesi in particolare (al contrario, per esempio, del troppo “fumettoso” Hulk di Ang Lee).
Non esistono eroi senza degni antagonisti, in particolare in un film tratto da un’epica come quella del fumetto. Willem Dafoe è un Goblin eccezionale, raffinato e psicologico, che presta anima e (soprattutto) corpo ad un villain centrale nello svolgimento. Benché siano relativamente pochi gli incontri tra i due uomini straordinari, la storia del cattivo, scienziato e AD in caduta libera, è importante tanto quanto quella del protagonista. I due nascono contemporaneamente e uno si specchia nell’altro, e si chiamano come in un legame indissolubile, anche nel privato, come un giovane in ascesa e un adulto in caduta. Non solo c’è un sottofondo visivo perenne di maschere e doppiezze, ma anche la tematizzazione del superomismo del quale entrambi sono investiti.
In verità, tutto il cast funziona: Tobey Maguire, simpaticamente “sfigato” ai limiti del credibile (e nel secondo film in maniera ancor più plateale) è perfetto per rappresentare il ragazzo della porta accanto, ma presta una pur misurata fisicità che è indispensabile per le acrobazie. E sono affiatati e in parte anche tutti i comprimari: il love interest Kirsten Dunst languida e smarrita, che condivide l’istantanea da storia del cinema popolare del bacio a testa in giù con Spiderman, James Franco camerata ingenuo ma dubbioso, Rosemary Harris come zia saggia e innocua. Spicca, ancora, il personaggio di JK Simmons, una macchietta divertente ma anche sfumata e brillante, entrata a buon diritto nella memoria collettiva.
… derivano grandi responsabilità
Il secondo film della trilogia, pensata subito come tale, riesce nell’impresa non facile di essere anche migliore del primo. Porta avanti la vicenda con nuove situazioni con le quali Peter si trova a che fare (va ad abitare da solo nella casa dove dovrà pagare l’«afieto», frequenta l’università, si costruisce una reputazione come fotografo, alti e bassi con Mary Jane), ma soprattutto sviluppa un’antitesi all’affermazione del primo film. Nella presa di distanza da Spider-Man di Peter Parker, che è un momento tratto dal fumetto e trasposto efficacemente sul grande schermo, si vede il peso della responsabilità («inquieto giace il capo che porta la corona», dice Nick Fury a Tom Holland in Far From Home) ma soprattutto il dubbio di qualsiasi individuo per sé stesso, in particolare nella metamorfosi di giovani in adulti. E, ancora una volta, molto del successo del film dipende da un villain carismatico che eleva il tono del film: in questo caso è il Doc Ock di Alfred Molina, un altro scienziato fuori controllo che, specularmente all’eroe, non è più se stesso.
Il terzo film, forse, calerà un pochino il tono, nello strafare con la quantità degli antagonisti, tutti motivati da interessi diversi e troppo singolari contro Spiderman. Eppure, prosegue il percorso tesi, antitesi, sintesi. La pienezza del terzo episodio si manifesta nell’avvicendarsi continuo tra negazione e appropriazione dell’identità di Spider-Man, nell’affollarsi di relazioni sentimentali e antagonistiche, nella fusione con il “dopo” di Venom e nei legami altalenanti con il “prima” di Uomo Sabbia e Goblin. Forse un quarto film avrebbe potuto redimere la chiusura poco formattata del terzo, ma non manca l’ispirazione, né tantomeno il divertimento, che anzi qui si fa anche più palesemente fumettoso, incredibile e caciarone. Forse alla fine proprio questo vogliamo ricordarci: non la scena finale con il funerale di Harry (simmetrica al primo film, a onor del vero) ma la famigerata sequenza del ballo di Peter Parker.
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