King è, sostanzialmente, uno scrittore di moralità. Quello che gli interessa (…) sono le decisioni che i suoi personaggi prendono. Ma nello Shining di Kubrick, i personaggi sono per lo più nella morsa di forze oltre il loro controllo.
(Laura Miller, “What Stanley Kubrick got wrong about “The Shining””, Salon, 1 ottobre 2013, trad. personale)
Il complicato inizio di un film leggendario
In tempo per il mese più spaventoso dell’anno, torna in sala, grazie a Lucky Red, quello che è unanimemente considerato uno dei film più terrificanti della storia del cinema. Stiamo parlando di Shining (1980), il capolavoro horror di Stanley Kubrick con protagonisti un allucinato Jack Nicholson – doppiato in italiano da un altrettanto allucinato Giancarlo Giannini – e una magistrale Shelley Duvall, la cui performance è stata spesso ingiustamente sminuita dalle storie dal set che la volevano “solo” traumatizzata dal pessimo trattamento infertole dal regista.
A distanza di 40 anni, la storia della famiglia Torrance, isolata nel mezzo dell’inverno nell’Overlook Hotel infestato di fantasmi, è divenuta iconica, sia nelle immagini (le due gemelline Grady, il bartender Lloyd, Nicholson congelato nella neve, gli interni dell’hotel, l’ascensore pieno di sangue, la foto finale…) sia nelle battute (“Sono il lupo cattivo!”, “Vieni a giocare con noi?”, “Wendy, sono a casa, amore!”). È impossibile, poi, non menzionare l’innovazione che ha apportato al cinema, con uno dei primi usi della steadycam, ovvero la macchina da presa portata a mano da un operatore e stabilizzata attraverso un apposito supporto.
Sorprenderà forse sapere che, all’uscita al cinema, Shining non ebbe il successo clamoroso che si sarebbe poi guadagnato nei decenni a venire. I critici diedero giudizi tiepidi e il film venne candidato a un Razzie Award per il peggior regista (sì, davvero) e ottenne un’altra nomination per la peggior attrice protagonista per Duvall, poi annullata nel 2022. Ma la condanna più feroce venne, senza ombra di dubbio, dall’autore della storia: Stephen King, dal cui romanzo omonimo Kubrick aveva tratto il film.
King ha parlato spesso, nel corso degli anni, della sua antipatia nei riguardi del film. Per il momento, ci limiteremo a riassumere le (giuste) criticità da lui sollevate in una frase: lo Shining di King e lo Shining di Kubrick raccontano due storie sostanzialmente diverse. Tuttavia, se da un lato questo spiega la frustrazione dello scrittore nei riguardi della sua “creatura” traviata dal regista, l’occasione che ci viene offerta è succulenta. Ci troviamo infatti di fronte a due prodotti, libro e film, entrambi dotati di un enorme valore, ma capaci di offrire due visioni distinte a partire da uno stesso canovaccio: da una parte, un racconto di redenzione; dall’altra, uno di dannazione.
“All work and no play makes Jack a dull boy”
Una delle critiche più veementi mosse da King è stata rivolta al casting di Nicholson nei panni del pater familias Jack Torrance, lentamente spinto alla follia dai fantasmi dell’Overlook fino a tentare di uccidere sua moglie Wendy e il figlio Danny (interpretato dal piccolo Danny Lloyd). Secondo King, Nicholson, che aveva già interpretato il protagonista di Qualcuno volò sul nido del cuculo, avrebbe rivelato troppo presto la follia del personaggio, mentre al contrario il suo desiderio era quello di un attore che incarnasse l’uomo qualunque.
Questo è, in effetti, il Jack descritto da King nel suo libro: uno scrittore in crisi con un passato difficile, che combatte con tutte le sue forze contro il mostro dell’alcolismo, anche per proteggere la sua famiglia, e che vede nell’inverno trascorso all’Overlook una possibilità di riconnettersi con loro. Una figura in ultima istanza tragica, lentamente trasformata e, nel finale, letteralmente posseduta dalle forze maligne che popolano l’Hotel. Una figura che per King, che ai tempi stava a sua volta lottando contro una dipendenza alcolica e un rapporto conflittuale con la propria famiglia, rappresentava certamente un doppio oscuro ma anche simpatetico, che alla fine riesce a redimersi quando, in un ultimo momento di lucidità, si sacrifica facendo saltare in aria l’Hotel dopo aver fatto allontanare i suoi cari.
Certamente, l’interpretazione di Nicholson, che sin dalla prima apparizione sullo schermo evoca un personaggio sinistro, non corrisponde al Jack Torrance del libro. Questo Jack non appare mai davvero interessato alla sua famiglia, neppure all’inizio della storia, e il suo declino verso la pazzia e la follia omicida è molto meno graduale e tortuoso di quanto non sia nel libro. Il suo primo scoppio d’ira nei confronti di Wendy è assolutamente ingiustificato e già molto violento, e si verifica ad appena tre quarti d’ora dall’inizio del film. Il finale, poi, manca completamente di una redenzione: Jack, infatti, muore congelato nel labirinto dell’Hotel mentre sta cercando di uccidere Danny.
Forse, nello scegliere Nicholson per la parte, l’obiettivo di Kubrick era proprio lo stesso per cui King lo trovava inadatto alla parte: metterci sull’attenti sin dall’inizio, lasciandoci intendere che il personaggio covi in sé il seme della follia da prima di arrivare all’Overlook.
Questa sostanziale differenza tra i due personaggi è anche la base che rende le storie raccontate da King e Kubrick così diametralmente opposte. Da un lato, infatti, abbiamo la parabola in negativo di Jack, un uomo che tenta inutilmente di non soccombere ai propri fantasmi e a quelli dell’Hotel fino alla sconfitta. Al contrario, nel film di Kubrick quella a cui stiamo assistendo è una storia di violenza domestica in itinere, in cui l’orrore sotterraneo di un marito con tendenze violente rinchiuso in un luogo isolato con la propria famiglia è molto più spaventoso di qualsiasi spettro.
Nel primo caso, i fantasmi si impossessano del corpo di Jack e ne fanno una loro marionetta con l’intento di uccidere Danny e Wendy. Nel secondo, a Jack serve poco più di una spinta per decidere di compiere una carneficina. Nel primo caso, la tragedia sta nella trasformazione e degradazione psicofisica del personaggio, pagina dopo pagina. Nel secondo, la tragedia è inevitabile ed annunciata. Come fa notare anche Laura Miller nel suo articolo sul film, la tensione per noi spettatori non risiede nell’attesa di cosa accadrà, ma nel quando.
L’Hotel e i suoi abitanti
Altro elemento sostanzialmente diverso tra libro e film è l’Overlook Hotel stesso.
Nel libro di King, la storia dell’Hotel viene raccontata nel dettaglio: Jack viene a conoscenza di diversi crimini efferati che sono stati compiuti al suo interno, crimini che hanno reso il luogo un covo di entità maligne che tormentano la famiglia Torrance anche a causa della sensibilità psichica del piccolo Danny. Al contrario, nel film l’unico crimine compiuto all’interno dell’Hotel di cui scopriamo i dettagli è quello di Grady, il precedente guardiano, che ha ucciso le figlie e la moglie in preda alla follia.
Degli altri spettri dell’Hotel, ispirati chiaramente a quelli descritti da King, non scopriremo mai la storia. Ci troviamo così davanti a creature come l’uomo con la maschera da orso, anche e forse tanto più disturbanti proprio perché non li conosceremo mai. Grady, in virtù del “privilegio” di avere una storia, assume un’importanza particolare anche perché specchio di Jack e del suo crimine.
Si è molto discusso sul significato delle parole che Grady rivolge a Jack quando lo conosce: dice che l’uomo “è sempre stato il guardiano”, una frase che è impossibile non ricordare vedendo la foto finale scattata nel 1921, in cui Jack appare proprio nelle vesti di guardiano dell’Overlook.
Forse, Kubrick ci sta raccontando la natura ciclica della violenza e di come le persone che la società considera più “deboli” (Danny e Wendy, le gemelline Grady) spesso sono vittime proprio di chi dovrebbe proteggerle (Jack e Grady)? Forse l’Overlook funge da microcosmo contenuto e rappresentativo della società, un luogo fondato sulla violenza destinato a ripetere la propria storia ancora e ancora? Non per niente, d’altronde, l’Hotel è stato costruito su un cimitero di Nativi Americani… Un po’ come l’America tutta.
Nelle loro interpretazioni del film, Bill Blakemore e John Capo hanno posto l’accento proprio su questi due elementi: l’uno considera il film una metafora dello sterminio dei Nativi Americani; l’altro lo interpreta come una metafora dell’imperialismo americano. Mantenendo la metafora, si potrebbe allora dire che la famiglia Torrance rappresenti la famiglia nucleare americana e l’ipocrisia che in essa si cela.
Tornando al nostro discorso iniziale, nello Shining di King non ci sono dubbi sulla natura degli spettri e sull’influenza demoniaca che esercitano sull’Overlook e chi vi si trova. Al contrario, nello Shining di Kubrick (come fece notare King stesso dopo l’uscita del film), la fonte di conflitto resta legata ai personaggi stessi e alla violenza in loro innata. I fantasmi non sono altro che una manifestazione di questa, e anzi, fino ad un certo punto del film viene addirittura da chiedersi se questi non siano altro che un prodotto della mente malata di Jack. Una sequenza finale, tagliata da Kubrick mentre il film era in sala, sottolineava ancora di più l’importanza dell’intervento umano nella vicenda. In essa, si faceva intendere che il direttore dell’albergo fosse in parte responsabile di quanto avvenuto alla famiglia Torrance.
Conclusioni
Il caso Shining è estremamente interessante: ci troviamo di fronte a due visioni d’artista opposte, evidentemente nate da due diverse visioni del mondo e da intenti diversi, che però hanno avuto entrambe un enorme successo critico e commerciale. Di fronte a due prodotti così ben riusciti, è davvero difficile applicare un giudizio definitivo su quale sia migliore. Ci troviamo infatti in una posizione più unica che rara: quella di goderci due versioni della stessa storia, immergendoci nel mondo sovrannaturale di King e in quello tremendamente claustrofobico di Kubrick, e poi… Decidere noi quale preferiamo, non in base a un giudizio qualitativo, ma secondo un metro interamente personale e soggettivo.

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