«Il mio amico Leo Benvenuti una volta mi disse una cosa fulminante: la vita sono venti estati utili. È vero. Dai venti ai quarant’ anni accade tutto quello che deve, il resto sono piccoli dettagli o grandi remake»
(Enrico Vanzina)
«L’estate non è una stagione, è uno stato d’animo»
(Jerry Calà)
A spasso nel tempo (perduto)
Prima di assurgere al pantheon degli stracultissimi on the beach – come malincomica rievocazione di un’aura romantica e goliardica che riporta immediatamente a riva l’inconfondibile gusto di estate italiana (come un cornetto Algida al baracchino), insieme al profumo di romanzo di formazione ed educazione sentimentale in costume (da bagno) di una generazione che si concepiva libera, irriducibile e spensierata -, Sapore di mare (1983), che compie nel 2023 i suoi primi quarant’anni, era in principio un piccolo castello – gelosamente custodito – di desideri, emozioni, ricordi e suggestioni dolceamare scritte e (ri)costruite sulla sabbia del vissuto autobiografico e cinefilo di Carlo ed Enrico Vanzina: una mostra di cartoline esistenziali, un inventario di personali madeleines in tandem, esposte alla maree silenziose o tumultuose della memoria selettiva, e all’onda lunga del tempo che in un attimo è fuggito via. A rischio, senza l’intervento di preziosa recherche sui materiali del cinema del passato e sui frammenti della cultura di un’epoca, di finire proustianamente perduto per sempre.
Origini di un cult
Ma andiamo con ordine. A fine anni ‘70, Carlo ed Enrico sono gli enfants prodiges – illustri figli (d’arte) di papà Steno – del nuovo cinema comico e popolare che, all’ingresso dei ruspanti ed euforici Anni Ottanta, cercano un approdo artigianale, sperimentale e avventurosamente acerbo a generi, linguaggi e specie inedite di homo cinematograficus in via di definizione e affermazione. Esordiscono con il più che discreto Luna di miele in tre (1976) – protagonista un Renato Pozzetto allora già in auge -, esotica e stralunata pochade imperniata su un goffo e improbabile triangolo di amori e sotterfugi. Poi indovinano un dittico musical-cabarettistico innervato sulla formula degli sketch a umorismo demenziale, surreale e parodistico del gruppo veronese dei Gatti di Vicolo Miracoli: Arrivano i gatti (1980) e Una vacanza bestiale (1981), in cui comincia a farsi notare la verve guascona e buffonesca del mattatore Jerry Calà, tra mimica e tic strabuzzanti sul faccione da schiaffi, fracassoni siparietti slapstick e irrefrenabili tormentoni verbali. Con i successivi Eccezzziunale… veramente (1982) e Viuuulentemente mia (1982), il duo porta quindi alla ribalta nazionale la singolare comicità del terrunciello di Diego Abatantuono, personaggio fin lì rodato sui palchi milanesi del celebre Derby Club: strambo mix di ingombrante e sbalestrata presenza scenica e storpiate circonvoluzioni linguistiche e dialettali, immediatamente calcificate nello stereotipo di successo. Ma è con I fichissimi (1981) – azzeccata revisione di Romeo e Giulietta in salsa urban e meneghina – che i Vanzina colgono un successo fragoroso quanto totalmente inaspettato (record di 9 miliardi di lire al botteghino, da un budget di poco superiore ai 300 milioni).
Forti dello smisurato trionfo, affiancati in produzione dal discografico Claudio Bonivento, i Vanzina ottengono dalla Dean Film di Pio Angeletti e Adriano De Micheli il via libera per un progetto che, per la prima volta, vuole affiancare a gag e maschere del comico puro un’intima e più sentita dimensione sentimentale. Con la trasparente volontà di rinverdire e riattualizzare la nutrita tradizione della commedia balneare, del fotoromanzo da spiaggia e del neorealismo rosa, molto in voga nei dorati anni Sessanta del cinema italiano. Il tutto attraverso i corpi emergenti dei nuovi vitelloni cafonal degli anni ’80 (capeggiati dall’inedita coppia di rampolli milanesi De Sica-Calà), stracotti al sole delle intramontabili tresche estive senza più scandalo, e abbronzati sotto la dolce protezione della nostalgia retrospettiva, rivolta alla spontanea leggerezza di spirito del periodo pre-contestazione sessantottina. Fermi restando alcuni referenti più autoriali, come La voglia matta (1962) di Luciano Salce (si cercò persino l’iconica Catherine Spaak per il ruolo della matura Adriana, poi andato a Virna Lisi) e, soprattutto, l’amato Dino Risi: Il sorpasso (1962), richiamato nella folta rosa di pezzi della grande canzone italiana come onnipresente e martellante contrappunto sonoro alla vicenda, e più ancora L’ombrellone (1965), da aggiornare alla disamina antropologica dei nuovi mostri sociali da spiaggia.
Sapore di Mare è così finalmente messo in cantiere. Ma senza troppi entusiasmi. All’inizio, infatti, non ci crede (quasi) nessuno. Solo una piccola sceneggiatura che riposa sulle scrivanie della produzione. Senza grossi nomi di richiamo, con attori esordienti o ancora poco noti (lo stesso Christian De Sica è al tempo relegato a particine di contorno). Tanto che il patron della mitica Capannina di Franceschi a Forte dei Marmi, Gherardo Guidi, è dubbioso sul concedere i permessi all’allegra ed entusiasta masnada di semisconosciuti (si ricrederà). Lo stesso Jerry Calà, inizialmente non previsto dal casting – per il suo esorbitante cachet da neo-divo in ascesa -, si unisce volontario alla compagnia vanziniana a stipendio da paria, garantendosi piuttosto una cospicua percentuale sugli incassi. I milioni di lire accumulati a fine corsa saranno dieci, oltre ogni possibile previsione. Uscito nel febbraio dell’83, il film è da subito un fenomeno di massa con una lunghissima tenitura nelle sale, arrivando a lambire la programmazione della arene estive con immutato successo: quelle stesse cine-arene in piazzetta distrattamente frequentate dai personaggi del film – con in cartellone I due colonnelli (1962) di papà Steno con Totò, e il peplum di Aldrich-Leone Sodoma e Gomorra (1962) -, a sancire così il perfetto rispecchiamento tra l’immaginario del film e il pubblico giovanile (e non) che immediatamente lo adotta e vi si immedesima. Un successo epocale di “un film che è nella costituzione del cuore degli italiani”, come ha mirabilmente sintetizzato in un’intervista Enio Drovandi, il gigionesco interprete del fotografo Cecco.
Celeste nostalgia
Sapore di mare è l’instant movie all’apparenza svagato che su due piedi diventa classico, cult e canone cinematografico. Troppo facile definirlo retromaniac cinema, oggi, immersi come siamo nell’impero indistinto della nostalgia mediale e del simulcast affettivo per la pop culture di massa. Ma quella dei Vanzina ’83 è nostalgia immediata, in purezza, prodotta ed esperita in tempi non sospetti. Un or tu rimembri ancora (ieri: gli anni ’60; per chi guarda oggi: gli anni ’80), sì, ma della prima ora, e a seguire per gli anni a venire. Il ciclico ritorno al passato di una futura memoria perennemente in circolo, sospesa nell’aria che si respira come un amorazzo da afferrare al volo e lasciar andare, sforzandosi di non cambiare pelle e mood (“stessa spiaggia, stesso mare”, appunto). Una nostalgia genuina e (d)istintiva, mai affannosamente isterica, al tempo stesso postuma (il ritorno agli anni del Boom, a cose fatte e premesse tradite) e preventiva: lacrima movie live, in insta-direct sul come eravamo nel momento stesso in cui ancora siamo (giovani). Impressionata nella sua ingenuità primitiva, prima che diventi brand codificato, serializzato, storicizzato (fu anzi il film stesso a rigenerare un corposo revival di generale “sessantezza” nell’industria culturale). Chi ci pensava più, all’hully gully e ai watussi di Edoardo Vianello, in un Paese che viaggiava spedito a imitare le ubriacanti movenze in disco-music del socialista gaudente Gianni De Michelis? Chi sbavava più, dietro a Paul Newman, o al Peter O’Toole di Lawrence D’Arabia («madonna, come me lo farei»), al tempo dei danarosi e tronfi petroldollari del JR di Dallas, che invadeva il piccolo schermo della nascente televisione commerciale? Altro che pellicola ricalcata su moduli televisivi, quella dei Vanzina. L’aura del cinema, il suo poetico e smargiasso lirismo da balera estiva anti-matusa, scandito nella ronde delle conquiste sul bagnasciuga e nei versi sciolti della colonna sonora di un’epoca irripetibile, sono un’altra cosa. E i primi piani da vintage teen movie melodrammatico di Carlo, i giochi di sguardi a distanza di chi si innamora in un colpo d’occhio, tra le file interclassiste dei bagni del Forte (genio puro, l’ascensore sociale stabilizzato orizzontalmente nella deriva di una gita in barca), ce lo ricordano ad ogni inquadratura, con una disarmante e vulnerabile onestà emozionale che il tempo non ha scalfito, e che solo i maldisposti pseudointellettuali à la carte – quelli pallidi e rachitici che al mare stanno nascosti sotto l’ombrellone, con indosso la maglietta bianca della salute, e assomigliano un po’ al Gianni Ansaldi del film (ma almeno lui è simpatico) – possono scambiare per futile superficialità.
Sbrigativamente rubricato dai soloni della critica (cosiddetta) alta come espressione fatua e artefatta del rampante edonismo individualista e irresponsabilizzato che (indubbiamente) si fa largo nell’ottimismo a oltranza dell’Italia craxiana degli anni ’80, e da molti ottusamente archiviato come esecrabile e stonata cover estiva in chiave minore di un gongolante e approssimativo pre-berlusconismo esportato in riviera, Sapore di mare è in realtà un’indimenticabile e sincera (pop) opera-compilation di sincero e cristallino sentimentalismo nostalgico, che però contiene – come un’amara b-side che scorre parallela e sovrapposta in doppio disco – un non meno profondo e lancinante senso della fine (il termine dell’estate come varco della linea d’ombra che segna il congedo da una gioiosa infanzia dello spirito, la perdita dell’innocenza che attende tutti alla fine dei giochi da spiaggia). Un denso e inesauribile film-jukebox smaltato di feticci e morbidi simulacri della vacanziera belle époque de noantri, che vive e palpita nella ricchezza degli incroci generazionali e nel divertito assortimento misto della sua dimensione corale. Invitando specularmente vecchi e nuovi spettatori a una rituale visione collettiva (organizzatela, una proiezione casalinga tra amici, per sbracare ottimisti e sognanti ad inizio estate, o per piangere a singhiozzi e musi lunghi quando giungono le nuvolacce nere cariche di pioggia, a sciacquar via le illusioni tra ombrelloni e lettini richiusi). Una platinum collection che riproduce la golden hour del cinema italiano, catalogo di battute, smorfie, dichiarazioni d’amore e ammissioni di trivialità, accenti marcati e linguacce scorrette a briglia sciolta, equivoci e scherzi, addii e baci rubati.
Negli occhi e nel cuore conserviamo la macchina da presa che piano piano stringe su Jerry Calà e Marina Suma – bellissima – ai primi approcci in avvicinamento sotto il gazebo, dove una scombiccherata festicciola da collegiali diventa per un attimo un trasognato e svecchiato cinema dei telefoni bianchi, come in un giardino fuori dal tempo. E naturalmente amiamo il clamoroso finale sulle note della Celeste nostalgia di Riccardo Cocciante. In cui la sapienza registica – mai troppo lodata – di Carlo Vanzina allestisce in melanconico controcampo l’agnizione della vecchia fiamma Marina, e il rimpianto trattenuto in fondo agli occhi liquidi e brilli del brizzolato Calà, con un sorprendente effetto-Vertigo alla Sergio Leone (carrello avanti combinato con zoom all’indietro) che va a vedere da vicino ciò che rimane e ciò che si è estinto di un sentimento incompiuto. Scene e personaggi cult che l’immaginario collettivo, insieme ad un pubblico affezionatissimo, si è portato dietro come un giradischi portatile sulla stuoia, che srotola le sue hit immarcescibili mentre qualcuno suona la chitarra seduto davanti a un falò al tramonto sulla spiaggia, magari prima di raccontare ai posteri cosa ne è stato di quell’atmosfera («Ci batteva il cuore. Eh, sì! Mi sembra di ricordare che ci batteva il cuore»). E qualcun altro, intristito, seduto in disparte malinconico e un po’ affranto come Selvaggia (Isabella Ferrari), guarda altrove perché forse, in mezzo all’entusiasmo della festa, ha già capito che si tratta davvero dell’ultima grande avventura dell’estate italiana. Come direbbe il Carlo Verdone de La grande bellezza, «Cos’avete contro la nostalgia, eh?».

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