Rouben Mamoulian è stato un regista armeno naturalizzato statunitense, nato a Tbilisi a fine ottocento e morto nel 1987 alla veneranda età di novant’anni: in realtà, pur essendo stato protagonista nel mondo del cinema per appena trent’anni, ha comunque contribuito significativamente alla rivoluzione tecnica e narrativa della settima arte, passando alla storia come il regista che ha ‘liberato’ la cinepresa dalle catene del cinema muto, ridefinendo notevolmente la grammatica cinematografica grazie alla fluidità dei suoi movimenti di macchina e al montaggio simbolico. 

I contributi di Mamoulian sono stati seminali sia per il progresso tecnico che per quello tematico, non rinunciando mai ad osare dove altri sarebbero stati più pudici e incontrando più volte le cesoie della censura. Si pensi al tema del doppio, che parte da Il dottor Jekyll – dove forse raggiunge anche il suo apice – e che il regista unisce sovversivamente al desiderio umano di libertà (intesa in senso lato: sessuale e identitaria), nonché allo stesso desiderio d’erotismo che Mamoulian lascia vivere sottotraccia in ogni suo film con le ossessive inquadrature su gambe e lingerie.

Per capire meglio come il regista sia riuscito a coniugare tematiche così ardite a un cinema dal tocco morbido e dall’impronta fortemente sinfonica e musicale (tant’è che col musical Amami stanotte firmerà uno dei suoi capolavori) soffermiamoci su alcuni dei suoi film, tanto importanti per il cinema del passato quanto per quello del presente:

  • Applause (1929)

Per evitare che intraprenda la stessa carriera, la giovane April (Joan Peers) viene mandata in convento dalla madre Kitty (Helen Morgan), ballerina di burlesque. Gli sforzi della madre si riveleranno vani una volta che April, cresciuta e uscita dal convento, sognerà a sua volta di diventare una regina del palcoscenico. 

All’inizio del cinema sonoro, Mamoulian abbandona la carriera teatrale per debuttare alla regia con un talkie dall’avanguardia sconcertante e che mantiene l’impronta on stage da cui proveniva il regista. Avvalendosi di split screen, sovrimpressioni e raccordi estrosi, Applause è il primo grande passo verso l’abbandono della staticità della macchina da presa: l’esordio è un lavoro ardito anche per lo sfruttamento delle ambientazioni, dove Mamoulian riesce a posizionare la camera nel miglior punto sia in interni (come le riprese dall’alto sul palcoscenico) che in esterni (memorabile la scena sul ponte di Brooklyn), ma anche per la descrizione cruda e cinica della vita da palcoscenico che il regista ben conosceva. Nel film si trovano in nuce tutte le peculiarità che contraddistingueranno la sua carriera, a partire dal montaggio che procede per similitudini e che imprime grande fluidità alla narrazione, arrivando alla protagonista che come il Dr. Jekyll o Queen Christina è scissa in due a causa di un soggetto auctoritas (la madre) e la cui parabola avrà un finale tutt’altro che consolatorio e appagante, probabilmente spiazzante per il pubblico di fine anni ’20.

L’esordio alla regia di Mamoulian è anche il suo primo incontro con la censura, che negli USA vietò la distribuzione del film in diversi stati e tagliò delle scene per la proiezione in alcune città come Chicago.

  • Le vie della città (City streets, 1931)

Il bravo ragazzo Kid (Gary Cooper) viene tirato dentro ad affari di gangster per via del suo amore con la giovane Nan (Sylvia Sidney), figlia del contrabbandiere Pop (Guy Kibbee).

Appena otto mesi prima del capolavoro Dr. Jekyll and Mr. Hyde, Mamoulian dà vita ad uno dei ‘padri fondatori’ del genere gangster su soggetto dell’autore hardboiled Dashiell Hammett. Il film aveva un’avanguardia tale che i capi della Paramount temevano il pubblico potesse uscire sconcertato dalle sale: per una delle prime volte nel cinema i flussi di coscienza di un personaggio assumono la forma di un primo piano (di Sylvia Sidney) sul cui sfondo riecheggiano voci sovrapposte di eventi passati; lascia a bocca aperta anche l’innovazione del montaggio, spesso basato su associazioni concettuali che donano un carattere sinfonico alla struttura del racconto (iconica la scena d’apertura, dove c’è lo stacco dalla schiuma di birra su una bottiglia di birra).

  • Il dottor Jekyll (Dr. Jekyll and Mr. Hyde, 1931)

Il primo adattamento del best-seller orrorifico di Robert Louis Stevenson, oltre a essere manifestazione dell’ossessione di Mamoulian per il doppio (qui le immagini si duplicano anche con ombre, dipinti, statue e specchi), è anche l’apoteosi della rivoluzione tecnica: la camera dona musicalità alla narrazione attraverso panoramiche mozzafiato, poeticità con i campi lunghi e intimità con i piani medi, ma in più – come nel coevo M – Il mostro di Düsseldorfè fondamentale il fuori campo assieme ai giochi con le ombre, che ricordano l’espressionismo cinematografico tedesco. Questa rivoluzione tecnica assume i caratteri di una sfrenata sperimentazione visiva, attraverso alternanze di oggettive a soggettive (Kassovitz ne L’odio prenderà in prestito la famosa “finta” soggettiva allo specchio), oniriche dissolvenze incrociate, split-screen (di nuovo) al servizio della narrazione e, ovviamente, l’indimenticabile make-up per Hyde ad opera di Wally Westmore. Nonostante non si arrivi alla ‘maledizione’ censoria di Freaks di Tod Browning – eppure il film di Mamoulian non è meno sovversivo e provocatorio – per decenni è stato impossibile vederlo nella versione completa a causa del Codice Hays, in più quando nel 1941 l’MGM girò un nuovo adattamento del romanzo furono ritirate quasi tutte le copie in commercio del film precedente e per decenni si credette come perduto.

  • Amami stanotte (Love me tonight, 1932)

Il fascinoso sarto parigino Maurice (Maurice Chevalier) si ritrova in un castello per un credito con il visconte Gilbert de Varèze (Charles Ruggles), fingendo così di essere un barone e innamorandosi della principessa Jeanette (Jeanette MacDonald).

Per certi versi, il cinema di Mamoulian era sempre stato ‘musicale’ e qui decide finalmente di scoprire le carte: adattando l’omonima opera teatrale di Paul Armont e Léopold Marchand, in Amami stanotte il regista reinventa il musical con un film dal ritmo travolgente e dall’umorismo frizzante; all’interno di un confronto sociale fra l’aristocrazia e il ceto medio, sempre affrontato con spirito leggero e spensierato, ancora una volta il regista non risparmia lo sfruttamento e il consolidamento di alcune tecniche avanguardistiche per il tempo come il ralenti (che richiama René Clair e Jean Vigo), lo split-screen (che aveva già usato in City Streets), l’accelerato, e soprattutto la musica concreta, perché le note composte da John Leipold sono la forza motrice della trama: proseguendo il concetto di ‘sinfonia’ già citato per City Streets, Mamoulian utilizza i suoni quotidiani di una Parigi ricostruita in studio per introdurci sensorialmente al flusso della vita cittadina (immortale la canzone Isn’t it romantic? che inizia nella sartoria, sale su un taxi, poi su un treno diretto in campagna, passa per un battaglione e termina infine con la voce della principessa Jeanette). Il montaggio si basava sulla musica a tal punto che il regista utilizzava un metronomo per marcare i movimenti degli attori e dare un ritmo alla recitazione: la commistione di tale maniacalità tecnica con i toni allegri dei ‘caratteri’ in scena portò Myrna Loy a chiedersi addirittura se Mamoulian non stesse realizzando una parodia dei film di Lubitsch.

Purtroppo, come Dr. Jekyll and Mr. Hyde e City Streets, anche Amami stanotte è stato danneggiato dalla censura: la versione integrale più lunga di 15 minuti pare introvabile.

  • La regina Cristina (Queen Christina, 1933)

Viene narrata la vita di Cristina di Svezia (Greta Garbo) concentrandosi sull’età adulta, quando la sovrana rifiuta il matrimonio combinato e vagando per il paese con abiti maschili si innamora dell’ambasciatore spagnolo, Don Antonio (John Gilbert).

Seppur distanti nel genere e nella rappresentazione, per certi versi Mamoulian prosegue il discorso iniziato con Dr. Jekyll and Mr. Hyde sulla libertà dell’anima e dei desideri: Jekyll come Cristina-istituzione e Hyde come Cristina-persona comune che vorrebbe fuggire dalla gabbia Reale per cessare di essere soltanto un’icona del Potere e stare col popolo (a tal punto da immergervisi lei stessa sotto mentite spoglie). Ma Queen Christina non colpisce esclusivamente per il ritratto rivoluzionario di una donna forte e anticonformista magistralmente interpretata da Garbo e che, quasi cent’anni fa, tirava già in ballo il gender, ma anche per le sfarzose ricostruzioni dei palazzi Reali svedesi del XVII secolo e per la cura della narrazione che Mamoulian riesce sempre a rendere fluida e ‘musicale’, avvalendosi ancora una volta per esempio del metronomo per dare più ritmo ad alcune sequenze (come nella scena in cui Christina vaga per la locanda cercando di memorizzare la stanza).

  • Il segno di Zorro (The Mark of Zorro, 1940)

1820: il seducente e spavaldo spadaccino Diego Vega (Tyrone Power) decide di lottare con maschera nera e mantello contro i soprusi del capitano Pasquale (Basil Rathbone), reo di colpire con tasse e violenze la popolazione del paese spagnolo natale di Diego, Los Angeles.

Il segno di Zorro è il primo di tre film girati da Mamoulian per la Fox ed è un remake dell’omonimo film muto di Fred Niblo con protagonista Douglas Fairbanks. Mamoulian si conferma uno dei migliori tecnici degli anni ’30, soprattutto per la versatilità con cui passa da un genere all’altro riuscendo ad adattare sempre la regia al genere del film, mantenendola sempre personale, riconoscibile e accompagnata da una vena ironica sorprendente e vivace. In questo caso il taglio d’azione non obbliga il regista a rapidi cut di montaggio, a cui sono preferiti invece piani sequenza dalle fantasiose e ironiche coreografie spadaccine (iconici anche i titoli di testa impressi su pergamena). I toni apparentemente spensierati dei suoi lavori si rivelano spesso un tripudio di accurate ricostruzioni storiche e ‘caratteri’ unici, com’era per il gender della regina Cristina è ora per il racconto di un uomo che decide di fingersi qualcun altro in un momento di oppressione (qui addirittura si triplica, prendendo per breve tempo anche le sembianze di un monaco). Sebbene si tratti di un remake, il film ha il merito d’aver portato avanti la tradizione di supereroi divenuti poi contemporanei e che però super non erano, ma eroi con anima, ardore, ironia, giocosità, e che con la loro scrittura presentavano storie appassionanti di identità in tempi di repressione sociale.

  • Sangue e arena (Blood and sand, 1941)

Il giovane e povero Juan Gallardo (Tyrone Power) non si fa frenare dalla morte del padre toreador, caduto nell’arena, e sogna di seguire le orme paterne. Nella sua carriera d’aspirante torero di successo sposa prima la fanciulla del suo cuore, Carmen (Linda Darnell), ma si lascia poi ammaliare dall’avventuriera d’alto bordo, Dona Sol (Rita Hayworth), che distoglierà Juan dall’obiettivo e lo priverà dell’ardore necessario ad affrontare impavidamente il toro.

L’interpretazione di Tyrone Power (che torna dopo Il segno di Zorro), le immagini sgargianti e di chiara ispirazione pittorica del Technicolor di Ernest Palmer e Ray Rennahan, assieme alle musiche passionali e avvincenti di Alfred Newman, creano una pietra miliare del dramma sul desiderio, sulla seduzione e sulla morte; mantenendo salda l’identità del romanzo da cui è tratto a firma di Vicente Blasco Ibáñez, il film denuncia apertamente la corrida e il mondo che vi gravita attorno, non risparmiando né il matador né il pubblico esagitato e assetato di violenza psicologica, oltre che carnale. Eppure Mamoulian non ricerca l’impatto emotivo e visivo delle brutalità ma, come più o meno in tutta la sua filmografia, decide di affidarsi al gioco delle passioni e in questo caso anche della spiritualità, richiamata dall’iconografia religiosa (presagio funereo: ma il destino era segnato).

IL RITIRO 

Fino al 1957, dopo Sangue e arena, Mamoulian girò soltanto altri tre film e tentò l’ultima fatica nel 1963 con Cleopatra. Purtroppo rimase insoddisfatto della produzione e decise di abbandonare non solo il set (di cui poi si occupò Joseph L. Mankiewicz) ma anche il mondo del cinema, non siglando mai più la regia di un film. Tuttavia, non stupisce che il suo ritiro non abbia mai fatto troppo rumore e che se ne sia andato più o meno in punta di piedi, perché nella sua carriera ricca di invenzioni stilistiche e tecniche, adattamenti di best-seller e (ri)letture di personaggi storici, la sua passione era guidata da una famosa massima che fungeva da spirito guida: “la sola innovazione degna di nota è quella che nasce dalla necessità artistica”. Chissà che seguendo questo suo motto non si fosse accorto d’aver esaurito le innovazioni, e come i veri autori non volesse produrre opere prive di questa vera e propria necessità.

Alberto Faggiotto
Alberto Faggiotto,
Caporedattore.