Ogni discorso su Ridley Scott comincia dal suo esordio alla regia, nel 1977, per il lungometraggio I duellanti, dedicato alla romanzesca opposizione tra due ufficiali sotto il gran sole di Napoleone nel primo ventennio dell’Ottocento. Nonostante la versatilità del regista, che nei decenni si è dedicato a pressoché qualsiasi genere, dalla fantascienza alla rom-com, dal road movie al thriller, si direbbe che l’inizio della carriera con un epico dramma storico sia stato una dichiarazione d’intenti che Ridley Scott avrebbe perseguito nei successivi cinquant’anni.
Più precisamente, il kolossal storico sembrava un genere seppellito all’avvento del 2000, privato ormai dell’interesse del pubblico, ormai stufo della magniloquenza dei vari Ben-Hur e Dieci Comandamenti. Forse, persino, manca qualcuno audace e sfrontato da sbattere la propria visione artistica in faccia ad un’audience sempre meno attratta dalla storia. Chi li fa più, ormai, questi film? Ed è vero anche che, se il mondo è stato tutto esplorato, all’alba del terzo millennio, non c’è più fame di conoscere tempi e luoghi diversi dal proprio. Ma, come dimostra la produzione di Ridley Scott, la storia può essere raccontata ancora e ancora in modo diverso, combinando istanze artistiche e commerciali e parlando in verità del presente.
Al mio segnale scatenate la storia: Il Gladiatore
«Che cosa vuole, il popolo, adesso?» si chiede l’imperatore Commodo ad un certo punto della trama de Il Gladiatore. La stessa domanda se la deve esser posta Ridley Scott: che cosa cerca il pubblico oggi? La risposta era la medesima dell’imperatore Commodo: lo spettacolo. Il Gladiatore, campione d’incassi 2000 e cavallo fortunato alla Notte degli Oscar 2001, è innanzitutto spettacolo, eppure è anche molto di più. C’è tanta azione realizzata con la maestria di un autore, ben posizionata al servizio di un racconto violento di caduta e di ascesa, intrighi e sangue, la tensione e l’esultanza respirata dagli spalti dell’arena, e la grandezza della metropoli quasi mitologica che è Roma imperiale.
Il divo Russell Crowe è marmoreo ma reale, dilaniato tra i suoi conflitti e pur carismatico lottando per la giustizia; la sua mentalità non sarà così vicina a quella che insegnerebbero gli storici, però Massimo Decimo Meridio incarna la gravitas che per noi pubblico contemporaneo è ideale attribuire ad un generale romano, e così siamo vicini a lui nella sua invincibile battaglia personale. Il villain Joaquin Phoenix è neronesco, tirannico e vizioso, mostrando la visione più plausibile di un imperatore antagonista. Ma la mano più preziosa, quella che veramente ha sancito la gloria di questa pellicola, è quella di Ridley Scott, capace di mediare la narrazione storica a supporto di uno spettacolo larger-than-life, larger-than-history, e per questo così attraente.
Il Gladiatore è uno straordinario monumento alla grandezza del cinema: non solo la ricostruzione sontuosa di un passato leggendario attraverso le tecnologie più avanzate, ma anche la messinscena di parte democratica di uno scontro perenne tra patrizi e plebei, tra il potente e l’opinione pubblica che a un certo punto arriva a preferire l’ignoto gladiatore all’Augusto di Roma. E qui l’occhio del regista concede al pubblico uno sguardo privilegiato, fittizio, di unici conoscitori della vicenda per intero. Solo noi siamo pienamente consapevoli delle trame di Commodo, dell’avvelenamento di Marco Aurelio e dei soprusi ai danni di Massimo. Questo è il potere del cinema, che indirizza e consegna la verità attraverso le immagini.
E che immagini! L’influenza popolare del Gladiatore è immane: oggi chiunque cammini tra le rovine del Colosseo o dei Fori Romani si immagina le note di Hans Zimmer. Certamente la partitura è di gran valore, ma quel sentimento di ammirazione estatica per l’Antica Roma viene anche dalle atmosfere incancellabili nella memoria collettiva create da Ridley Scott. Non proviamo lo stesso senso di magnificenza ad Atene, solo per Roma: solo per Roma c’è un film di Ridley Scott. Le dita che sfiorano il grano dei Campi Elisi, la battaglia contro i barbari nella foresta, la sabbia nell’arena: con Il Gladiatore è stato riacceso quel barlume di attenzione per il peplum che, per ultimo, aveva realizzato Spartacus di Stanley Kubrick quarant’anni prima.
Mosè con la spada: inverosimiglianza storica
Spesso le analisi del Gladiatore vanno a risolversi in un rapporto sull’accuratezza storica della rievocazione latina. Massimo Decimo Meridio non è mai esistito, Marco Aurelio è morto di peste, non c’era interesse a restaurare la repubblica, le armature non sono storicamente verificate, eccetera. Ridley Scott non dev’essere un fanatico dei libri di storia: sovente le sue epiche cronichles si prendono molte e anche troppe libertà nelle contestualizzazioni, nei dettagli, nelle cronologie e, soprattutto e con maggior gravità, nella mentalità che muove i personaggi nelle proprie epoche di riferimento. Così tutto si appiattisce all’epica a stelle e strisce, spesso militareccia e piuttosto superficiale, o a scaramucce di cuore, annullando il potenziale istruttivo degli affreschi storici.
L’esempio più lampante si vede nell’ultima fatica Napoleon, dove l’imperatore dei francesi corre a destra e sinistra banalmente per un complesso di inferiorità e gelosia patologica nei confronti della moglie. Ma ci sono molti esempi di strafalcioni anche tra i drammoni storici meno famosi di Ridley Scott: una bella confusione ideologica e strategica ne Le Crociate – Kingdom of Heaven, approssimazione paradossale nella presunta ricostruzione storica della leggenda di Robin Hood, fino alla più ridicolmente colossale trasposizione biblica di Exodus – Dei e re. In un’intervista promozionale alla vigilia dell’uscita di quest’ultimo, a Christian Bale e Ridley Scott fu domandato se, secondo loro, Mosè fosse stato veramente un condottiero militare, e i due risposero affermativamente e pure con convinzione. Era necessario promuovere così la pellicola o veramente dalle parti di Hollywood sono tutti così scollati dall’oggettività?
Il regista è un costruttore di mondi, e Ridley Scott in particolare è un architetto meticoloso delle atmosfere nelle quali si snodano le sue gigantesche vicende di uomini e donne eccezionali. Riesce sempre a bilanciare dramma e azione, persino nelle storie più “quiete” come Tutti i soldi del mondo e House of Gucci, che non sono esattamente kolossal ma dove comunque una componente thriller non manca. E pure le battaglie di Kingdom of Heaven e le scene ad ampio respiro di Robin Hood sono ineccepibili, ma la forma mozzafiato può non bastare a realizzazioni dal fiato mozzo sul piano dei contenuti. Il rischio maggiore di lavorare con grandi budget, per un autore, spesso, è di accomodarsi sulla messinscena e non avere una direzione chiara con cui analizzare la materia storica.
Mitomane o eroe: Napoleon e Ridley Scott
In verità, anche nelle sue regie più “pigre”, sarebbe disonesto affermare che Ridley Scott non abbia operato un lavoro interpretativo. A tanto arriva la sfrontatezza di questo regista, ad utilizzare la storia per quello che vuole dire lui. In effetti, non sembra una novità, ma la prosecuzione del metodo consueto dei kolossal storici della Hollywood Classica di maggior classe, primo su tutti Spartacus. Kubrick (o forse Dalton Trumbo) parlava del maccartismo attraverso l’Antica Roma, Scott parla della crisi di fede dell’Occidente all’indomani dell’11 settembre attraverso le Crociate. Questo è il lavoro di regia di Ridley Scott: a partire da un soggetto storico realizza una mediazione in grado di comunicare qualcosa di attuale al suo pubblico. E se gli storici protestano perché Napoleone non ha sparato sulle Piramidi, Ridley Scott li invita a farsi una vita: il suo obiettivo non è mai stato fare un documentario su Napoleone, ma raccontare, a modo suo, il percorso di un personaggio controverso.
Peraltro, Scott opera questo compito di mediazione con grande capacità, non solo drammaturgica, ma anche sul piano della messinscena vera e propria. L’azione, onnipresente, è quasi un suo marchio di fabbrica nella trasposizione storica: mica per nulla sono famosi i suoi storyboard disegnati a mano con una precisione tale da garantire la rapidità di qualsiasi produzione, anche la più gigantesca biografia napoleonica. Inoltre, per quasi tutti i suoi film storici, Ridley Scott sceglie un’impostazione ardita e dinamica, onde evitare di ripetere il tono e copiare se stesso. La più “dolce vita” delle sue opere, House of Gucci, è enfatica e cortigianeggiante come una visione di melodramma; Robin Hood è la decostruzione dell’icona leggendaria, cercando di demistificarla e attribuendole una concretezza socio-economica; The Last Duel è la dialettica processuale materialista sotto l’ultimo duello di dio, ma anche uno spaccato della condizione di subordinazione femminile attraverso i secoli.
E questo regista ultra-ottuagenario è da sempre progressista anche nella selezione di protagoniste femminili forti e sfumate, come soprattutto Ripley, Thelma e Louise, ma anche Marguerite de Carrouges e Giuseppina Bonaparte. Napoleon, infine, è forse il più rappresentativo tra i kolossal storici di Ridley Scott: smisuratamente di parte, in quanto satira da parte di un inglese del più detestato avversario francese, lungo e problematico sul fronte interpretativo. Ma Napoleon è anche il ritratto di un individuo grande e in quanto tale necessariamente controverso, divisivo, inafferrabile nella sua interezza. E così anche il film (e la sua attesa versione director’s cut) è eterno, sfilacciato e mai scontato: il grande uomo cerca l’affermazione attraverso l’approvazione della moglie che non riceverà, eppure è dilaniato tra l’ambizione di lei e l’amore per sé, la tensione al potere e l’inadeguatezza a trattenerlo, l’ascolto passivo e la chiacchiera ciarlatana.
Forse questo soggetto, così pericoloso da aver impedito persino a Kubrick di compiere una biopic di Napoleone, tanto influente da aver generato un esperimento importante come il lavoro di Abel Gance, era perfetto per Ridley Scott. In esso, il regista che aveva esordito con i napoleonici Duellanti vide la possibilità di specchiare la propria ambizione. Tra tutti i grandi condottieri guidati finalmente dal destino, protagonisti tipici nella sua filmografia e affidati ai migliori istrionismi hollywoodiani, l’imperatore di Francia è il più complesso e sfaccettato. Marchiato di tracotanza, Napoleone è destinato ad un’inesorabile fallimento, e così è anche l’opera Napoleon, gigantesca, multipotenziale e, ciononostante, in qualche modo incapace di sviluppare il suo pieno potenziale. Non c’è niente di meglio per un regista che, come Ridley Scott, da sempre sfida il cinema contemporaneo per restituire la grande storia al grande pubblico.

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