Costernati dai recenti allarmi sui cali delle maggiori piattaforme di streaming; intimoriti dai futuri provvedimenti sugli account condivisi; perplessi dalla qualità generale che accompagna le serie d’incasso; finalmente ristorati, seguendo la fortuita congiuntura festiva, dalle numerose e valevoli novità in catalogo. Ecco, quindi, quasi in sordina passare, tra un Bardo, un Pinocchio e un DeLillo, la sesta parte di una seria saga multiversale: tra i molti Rick, gli innumerevoli Mort(i)y, e gli svariati, ma sempre dilettevoli, Jerry.
Passano gli anni, si rinnovano i contratti. La serie di Justin Roiland e Dan Harmon ha proliferato contaminando immaginari, assorbendo universi paralleli, rigettando le rigidità, stilistiche e formali, delle prime stagioni. Niente più wabba lubba dab dab (non siam mica puttane, si ricorda Rick), personalità familiari dueddì, ritmi involontariamente sincopati o esasperate gag sui Mr Miguardi. Resta l’estro creativo e la capacità di sviluppare trame sempre nuove, rimettendo sul tavolo vecchie conoscenze e notissimi gadgets, ampliando e rendendo così sempre più familiare un universo narrativo che nulla ha da invidiare alle grandi saghe cinematografiche recenti.
Dalle felicissime esperienze pubblicitarie sulle porte! viste alla tv interdimensionale ai furettosi GoTron; dalle navicelle senzienti alle parodie, congiunte e inconsapevoli, della Mia cena con André e del Namor di Wakanda Forever; dalle apocalissi planetarie vissute come una Woodstock ai draghi porcelloni; dagli ignoti usurpatori di water ai treni della narratività, passando per i classici: dai cetrioli bellicosi alle parodie dei Vendicatori, fino a qualche civiltà dominata da menti a sciame (con menzione d’onore ai sette della Greendale), qualcosa è pur cambiato. E che il cambiamento, graduale e motivato, delle dinamiche tra personaggi di una sitcom animata sia reso e cesellato in maniera tanto certosina è cosa rara e sempre gradita. In questa primo pezzo della sesta stagione, infatti, vengono al pettine nodi familiari che covavano sotto le ceneri delle precedenti stagioni: il rapporto tra nonno e nipote che continua a essere messo in crisi da situazioni sempre più assurde – ce la faranno i miliardi di NFT di Morty a fidarsi del messaggio messianico di Rick, mentre fuori Die Hard infuria? – ma soprattutto il matrimonio di Beth e Jerry stravolto, stavolta, dalla presenza del clone di Beth. Ed è forse proprio il personaggio di Jerry, malinconico e tontolone, a spiccare maggiormente. Sarò un uomo, ma sono anche un bambino, e i bambini non sono responsabili della sofferenza altrui. Un goccio di vittimismo, dell’amara consapevolezza, infine il nuovo e fecondo compromesso con le Beth; una figura tragicomica che gioca tutto sulla miseria percepita dall’individuo al disvelarsi dell’assurdo nella propria quotidianità. Un’irruzione che viene costantemente ritardata, nascosta, – i puzzle sono meglio dalle simulazioni spaziali iperrealistiche – offuscata, ripudiata – perché è preferibile farsi innescare un dispositivo che consenta di chiudersi letteralmente a riccio piuttosto che affrontare le imprevedibili conseguenze della realtà –; infine accettata, masticata e rimodellata alla luce di un compromesso tanto traumatico per le orecchie dei figli, quanto divertito e giocoso per le tre parti in causa. Un personaggio sviluppato con cura e per questo mai definitivamente “arrivato” – come dimostra quel vecchio file Never trying never fails Final_final_final che con tanta difficoltà viene riesumato nella sesta puntata di questa stagione – ma costantemente alla ricerca.
Se di tanti comportamenti è facile rintracciare la linea di trasformazione, lo stesso non si può dire per quelli di Rick: solito egomane intabarrato in cinismo e facili autogratificazioni, tanto che, alla fine di La famiglia della notte, non fosse stato per i quotidiani e gravosi impegni del giorno, avrebbe capitolato definitivamente contro i nottambuli e tutto per non cedere al puerile compromesso di lavare dei piatti. Questo, probabilmente, il miglior episodio della stagione, definito dalle rapide ellissi temporali – naturale conseguenza della mancanza della sparaporte – che separano desti da nottambuli. Intessuto quindi di un ritmo pacato che si adegua agli stilemi dell’orrore, ricordando ora Us di Jordan Peele, ora il più recente Severance per le tematiche in gioco, la puntata si chiude con l’apparente vittoria della famiglia della notte, che tuttavia soccomberà alla futilità del giorno e deciderà di farla finita in pieno stile Hitchcock (I’ve just come into possession of a cure for insomnia…).
Tra serietà e facezie, tra una partitina a Roy: a life well lived e una cenetta teleologicamente orientata da Panda Express, passando per la rediviva sigla di Taxi, Rick & Morty continua la sua missione di sbertuccio agli idoli della cultura pop contemporanea, di derisione alla normalità, di abbraccio all’assurdo, guadagnando, di anno in anno, l’attenzione di chi ha ancora interesse a farsi stupire e al tempo stesso inquietare.
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