A sole due settimane dall’arrivo nelle sale italiane di Nosferatu, remake a cura di Robert Eggers con protagonista (o, mai come in questo caso, villain) della pellicola il Conte Dracula nella sua rivisitazione storicamente più famosa del Conte Orlok, un altro mostro gotico si accinge a cercare il proprio posto sotto i riflettori con un’altra rivisitazione: stiamo ovviamente parlando del lupo mannaro e del remake guidato da Leigh Whannell.
Whannell – co-creatore della saga di Saw e Insidious e regista della piccola perla Upgrade – non è certo nuovo a questo tipo di operazioni: proprio per mano sua, infatti, un altro mostro classico della Universal ottiene nel 2020 una rivisitazione in chiave moderna ne L’uomo invisibile, pellicola capace di convincere sia critica che pubblico e capace di rivitalizzare un personaggio spesso ritenuto “secondario” a fronte dei ben più iconici vampiri, mummie o mostri di Frankenstein. Con una certa trepidazione si è quindi atteso che la stessa cosa potesse avvenire anche con L’uomo Lupo, personaggio che da un lato ha saputo godere di una fama sconsiderata soprattutto come villain o rivisitazione del personaggio – basti pensare a saghe come Harry Potter, Underworld o Twilight, in cui i lupi mannari sono di certo presenti, ma di difficile accostamento a quanto visto agli albori – ma che al tempo stesso ha sempre faticato a guadagnarsi un suo spazio in pellicole dedicate – eccezion fatta per l’esempio più famoso di Un lupo americano a Londra, che virava tuttavia verso un approccio più vicino alla commedia.
Certamente, nel 1961 la Hammer – in pieno processo di sfruttamento dei vari brand classici Universal – crea la sua versione del lupo mannaro ne L’implacabile condanna (Terence Fisher), e in tempi più recenti arriva nelle sale The Wolfman (Joe Johnston, 2010), remake della pellicola originale del 1941 che, nonostante l’ottima fattura e il buonissimo cast, non seppe incontrare il successo né di critica né di pubblico e si rivelò un flop commerciale. Nessuna pellicola sembra quindi destinata a riuscire nell’impresa di donare lustro a questo personaggio, sarà Leigh Whannell a spezzare questa maledizione?
Confusione tematica
Dopo una sequenza iniziale dalla durata tutt’altro che indifferente, nella quale ci viene mostrata una piccola porzione dell’infanzia del protagonista assieme al burbero padre, la narrazione esegue uno skip temporale di trent’anni proiettandosi al giorno d’oggi, dove Blake (Christopher Abbott), abbandonata la carriera di scrittore per prendersi cura a tempo pieno della figlia Ginger (Matilda Firth), fatica a mantenere in piedi la relazione con la moglie Charlotte (Julia Garner), vera colonna portante della famiglia a livello lavorativo ma che fatica a costruirsi un rapporto con la piccola figlia. L’arrivo della notizia del certificato di morte del padre, porta la piccola famiglia a imbarcarsi in un viaggio con la speranza che, cambiando aria per un qualche mese, anche la loro situazione possa mutarsi per il meglio, ignari del fatto che il cambiamento arriverà ma in maniera completamente diversa da quanto immaginato.
A livello narrativo, è chiaro fin dalla primissima scena – uno sfondo bucolico con scritte a comparsa che servono per aggiornare lo spettatore su alcuni retroscena riguardanti la maledizione del “volto di lupo” – come ci fosse l’intenzione di raccontare una piccola parte di una storia apparentemente più ampia e la scelta di ambientare la maggior parte della pellicola durante una sola notte acuisce questa sensazione. Si ha infatti l’impressione di trovarsi davanti a una pellicola conscia già in partenza delle proprie limitazioni e di quanto non potesse mostrare piuttosto che del contrario e se in alcuni casi questo porta a uno sfruttamento alternativo di ciò che si ha guadagnandone in inventiva (e per certi versi qualcosa di questi tipo avviene), qui a primeggiare è soprattutto quel senso di “quanto di più avrebbe potuto essere”.
Se, infatti, con L’uomo invisibile era chiara fin da subito la tematica dello stalking e il collegamento con l’orrore diventava quindi lapalissiano sia nella messa in scena che nella tematica, qui risulta ben più difficile riuscire a fare i collegamenti dovuti. Ad onor del vero, i temi trattati sono più di uno – in particolare il ribaltamento dei ruoli famigliari uomo-donna, il padre-protettore che si evolve nell’opposto, il riuscire a controllare i propri istinti – e forse proprio in questa sovrabbondanza il film si perde cercando di voler fare troppe cose, senza riuscire davvero a portarne a termine nessuna. Soprattutto nella trasformazione in licantropo, spesso veicolo di numerose riflessioni sulla natura umana e sulle proprie evoluzioni, risulta difficoltoso riuscire a trovare una quadra che permetta di andare oltre il banale “padre che non adempie il suo compito di protettore”, soprattutto in vece di un finale che sembra invece virare in una direzione completamente diversa.
Trionfo dell’orrore
È quando ci si sofferma però maggiormente su tutti gli altri fronti che il film mostra i suoi punti di forza. Per quanto la narrazione non permetta, come detto, un grande approfondimento sul fattore tematico ed emotivo, a livello estetico l’evoluzione graduale in lupo mannaro avviene attraverso una commistione di elementi scenici e visivi davvero ottimi, unendo un eccellente trucco prostetico e una cgi ben amalgamata per mostrare i vari stadi della “malattia” assieme a un reparto sonoro centrale soprattutto nel valorizzare le nuove bestiali abilità da un lato e dall’altro per acuire il senso di terrore derivante da ogni singolo rumore e amalgamando il tutto ad alcune sequenze dall’aspetto quasi oniriche in cui la prospettiva dell’uomo lupo permette una visione dell’ambiente completamente distorta nelle forme e nei colori.
A questo si aggiunge una regia di Whannell davvero ottima e ispirata, capace di destreggiarsi tra le ombre – forse troppo accentuate – delle numerose scene notturne costruendo un’ottima tensione per buona parte della pellicola fino all’orrore puro di alcune sequenze tra il gore e il body horror davvero ispirate, con una copiosa quantità di sangue a schermo a coronare il tutto. Proprio su quest’ultimo fattore, non possiamo non complimentarci per la splendida citazione al primo Saw, messa qui in scena con una maestria unica. Davvero ottime sono poi le – purtroppo – meno numerose sequenze diurne, capaci, in più di un’occasione, di caratterizzarsi con alcuni shot davvero incredibili.
Ulteriore elemento di riuscita della pellicola risiede in Abbott, capace di costruire un’interpretazione che si evolve dalle parole alle espressioni facciali e in cui il corpo e i movimenti giocano un ruolo fondamentale; sempre sul fattore attoriale risulta tutto sommato buona l’interpretazione della giovane Matilda Firth, sacrificata purtroppo a mera presenza giovanile di fatto poco utile ai fini delle evoluzioni di trama, mentre Julia Garner, nonostante una leggera ripresa nell’ultima parte del film, risulta spesso incastrata in un’interpretazione poco incisiva.
Conclusioni
Visti i precedenti di Leigh Whannell, sembrava lecito aspettarsi anche da questo Wolf Man una rilettura di un mostro di stampo classico per raccontare in chiave moderna importanti tematiche. Se parzialmente ciò accade, soprattutto in vece della creazione prima di una tensione e poi di un orrore estremamente funzionale al giorno d’oggi grazie a un ottimo comparto tecnico, di trucco e di messa in scena, è sul fattore narrativo che la pellicola si rivela, almeno parzialmente, deludente: delle tante tematiche inizialmente trattate, nessuna riceve infatti un approfondimento efficace, relegando anche la trasformazione in licantropo a un puro gioco estetico e di terrore visivo piuttosto che nel costruire una vera e propria riflessione su di essa.
Wolf Man non è quindi certo un pessimo film e riesce senza problemi a intrattenere e inquietare per i suoi 103 minuti di durata, ma se ci si approccia aspettandosi una rilettura forte e intelligente del mito classico del lupo mannaro risulterà inevitabile uscire dalla sala con una forte delusione.

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