La stanza di una casa, allo stesso tempo confortante e vagamente inquietante; un incubo nascosto dietro la tranquilla facciata del nido domestico; il set di un documentario sulle streghe; un bosco in penombra. In questi spazi si riprende Elizabeth Sankey quale regista, protagonista e voce narrante. È la sua storia, ma non solo.
Se del suo precedente Romantic Comedy oggetto d’indagine sono le commedie romantiche, la rappresentazione – tradizionalmente bianca ed eterosessuale – dei rapporti di coppia, Witches si muove nello limite fosco, sfumato tra visibile e invisibile, realtà e immaginazione, del cinema fantastico. Lo spazio che separa anche la storiografia dalla tradizione popolare e folklorica, attorno alla figura delle streghe, che tanto affascinano l’immaginario collettivo e la mente della regista.
Poche restano trascurate. Dalle figure più tradizionali – la malvagia strega dell’Ovest da Il mago di Oz,, le megere del Macbeth di Roman Polanski e di Joel Coen – ai volti di Anya Taylor-Joy, di Neve Campbell e del trio Cher-Pfeiffer-Sarandon: streghe di volta in volta familiari, anticonvenzionali, postmoderne, revisioniste. La narrazione di Sankey si fa strada in un sentiero che attraversa la cinematografia di tutte le epoche – principalmente europea e americana, ma non solo -, in cerca delle streghe e, più in generale, delle escluse, delle eroine ai margini della società. Ma questa non è solo la storia delle streghe di ieri; ma anche di quelle di oggi, e per quelle di domani.
Strega buona, strega cattiva
Dopo la nascita del figlio, Elizabeth Sankey comincia a soffrire il peso di un’oscurità crescente, che la divora da dentro. Non riesce a dormire, ha paura dei propri pensieri che rivolge contro il proprio figlio, esprime il terrore di perdere la ragione, di far del male ai propri cari. In realtà, scopre di soffrire di depressione post-partum.
Passa un periodo in una clinica: in questo frangente, viene in contatto con le storie di giovani madri, a lei accomunate da uno spettro di disturbi simili o vere e proprie patologie, ugualmente o similmente invisibilizzati o sminuiti dalla pratica medica. Ancora scarsi di visibilità sul piano pubblico, relegate sotto una coltre di imbarazzo e disagio, soggette alle medesime discriminazioni strutturali del resto della società.
A partire dallo spunto autobiografico, Elizabeth Sankey traccia un percorso che, a ritroso, attraversa la personale ossessione per le storie fino alle origini moderne del fenomeno delle streghe; in quanto tale, codificato come strumento di controllo maschile sulle donne e sulla popolazione.
Le regole del cerchio
Navigando attraverso le mancanze del sistema medico ancora soggetto a bias e retaggi strutturali del passato, le streghe trovano conforto nella comunità, nell’empatia di gruppo, nella condivisione. Il Cinema è solo lo spazio intermedio, una foresta di suggestioni, in cui si muove un ritratto, in cui ampio spazio è dato alla soggettività, al conforto reciproco. La sincerità, la familiarità con queste voci diverse ma accomunate da una medesima urgenza sono forse gli aspetti più originali di un doc che affronta la sua tesi con più convinzione che sistematicità, e spesso si smarrisce nei sentieri dei propri argomenti.
Un momento di confessione collettiva, verbosa, didascalica perché proprio della parola si riappropria, in quanto identificazione del problema, ma anche legame fondante dell’identificazione di sé, dell’empatia. Tanto quanto le storie su schermo, le voci delle loro protagoniste – o anche, con uguale empatia, delle loro antagoniste.
Un uso della parola che frammenta il rigore delle proprie spiegazioni, preferendogli immagini rarefatte, passione cinefila e sentimenti reali. Convince meno come essay; incanta come diario intimo, specchio collettivo.
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