Il film del centenario Disney crolla su se stesso, indegna rappresentazione di un secolo di storia

Nell’anno del suo Centenario la Walt Disney Company non se la sta certo passando benissimo: i film Marvel e baracconi vari non hanno il roboante successo di 5 anni fa, la piattaforma Disney+ vive una fase di stallo, merchandise e parchi costituiscono ancora il grosso degli introiti ma la paura serpeggia. I film animati dello studio principale che dovrebbero costituire il cuore dell’impero sembrano godere di pochissima fiducia negli ultimi anni da parte della compagnia che al cinema li fa uscire di soppiatto (come nel caso di Strange World) o preferisce relegarli su Disney+ (Raya e l’ultimo Drago). Abbiamo citato non a caso due film imperfetti e ignorati da tutti ma con una certa personalità, inoltre l’unico successo di pubblico WDAS del post-Covid, Encanto, è certamente più classico e meno innovativo degli altri, ma raggiungeva perfettamente il suo scopo: ignorato all’uscita in sala, popolarissimo su Disney+, canzoni virali su TikTok e qualche peluche venduto. Quanto alla Pixar, fratello minore dei WDAS, il discorso è simile: tre film relegati sulla piattaforma (il miglior film Pixar dal 2010 Soul, il tenero ma piccolissimo Luca, e il personalissimo ma riuscito a metà Red), una campagna pubblicitaria più aggressiva trasformatasi in un buco nell’acqua per Lightyear e un andamento degli incassi piuttosto singolare per Elemental (il botteghino non è esploso ma ha tenuto abbastanza bene per l’estate). 

In poche parole, con Wish, il sessantaduesimo lungometraggio Disney, si attendeva il filmone, il nuovo Classico che unisse grandi e piccini, che facesse innamorare tutti dei suoi personaggi (la principessa che principessa non è, il cattivo che stavolta è cattivo davvero, animaletti parlanti, aiutanti simpatici e anziani saggi), del suo mondo magico e delle sue canzoni rappresentando l’essenza della Disney e che possibilmente incassasse una valanga di soldi. Wish è stato caricato della responsabilità di rappresentare l’essenza stessa dei Walt Disney Animation Studios, coniugando tradizione e innovazione, sublimando cento anni di arte. Una responsabilità che non poteva certo sostenere, e si nota.

Asha è una giovane ragazza che vive nel magico regno di Rosas, governato dal potente Re Magnifico. Ogni cittadino del regno al compimento dei diciotto anni affida al re il suo più grande sogno, dimenticandolo e privandosi anche della paura di non riuscire a realizzarlo. Il Re custodisce i sogni di tutti i cittadini realizzandone solo alcuni, i più semplici e innocui, per non alterare lo status quo.

Wish è un bignami di tutto ciò che ha reso la Disney sé stessa nell’ultimo secolo e non vuole certo nascondere la sua natura estremamente derivativa. Come accade spesso in un film di principesse, il sogno è l’elemento centrale della trama. Come accade troppo spesso, la stessa parola “sogno” viene ripetuta ossessivamente (senza nemmeno quella chiave ironica che abbiamo trovato in Rapunzel) fino a stuccare qualunque spettatore che abbia più di sei anni. Asha (doppiata da Ariana DeBose in originale e da Gaia Gozzi in italiano) non ha certo la personalità di una Tiana, di una Elsa o di una Vaiana (non ci proviamo nemmeno a paragonarla ad Ariel o a Mulan) e fa anche una certa tristezza vederla nel ruolo di possibile leader di una rivolta del popolo contro il tiranno. 

Il malvagio Re Magnifico (Chris Pine/Michele Riondino) vuole essere una ripresa del villain dei vecchi classici. Nessuna spiegazione psicologica, nessun trauma irrisolto, nessun effetto sorpresa sulla sua identità: è cattivo e basta, e lo è da subito con tanto di risata malvagia inconfondibile, canzone che esprime la sua personalità narcisista e quel colore verde sulfureo che abbiamo visto molto spesso in altri cattivi (Malefica, Scar, Ade e, al di fuori della Casa del Topo, Rasputin). Prende elementi da Ursula e Frollo ma sembra essere un lontano cugino di Jafar, con cui condivide anche una simile sconfitta anche se ovviamente manca la distruzione totale del personaggio, troppo cruenta per questi tempi. Viene presentato come un vanaglorioso amante degli specchi ma questo elemento non viene sfruttato nella maniera più originale. Per farla breve: non incide.

I personaggi di contorno sono semplicemente noiosissimi: Star è una copia pigrissima degli Sfavillotti di Super Mario Galaxy, l’asinello Valentino (Alan Tudyk/Amadeus) non resta certamente impresso nella mente degli spettatori. Il gruppo di amici di Asha è algoritmicamente calibrato per rispecchiare al meglio la diversità, è insipido e fa quasi rimpiangere il gruppo di Big Hero 6. La figura del vecchio Saba non risulta né ispirante né buffa, forse vuole simboleggiare una vita intera vissuta senza sogni, ma non è interessante.

Se Elemental sembrava quasi il grado zero e senza creatività della creazione dei sottomondi Pixar, Wish sembra il grado zero della fiaba Disney, con i desideri e i sogni al posto dei quattro elementi, il libro che si apre e la stella su nel cielo. La volontà di omaggiare qualsiasi suo predecessore anche in maniera totalmente esplicita (vengono direttamente menzionati Bambi, Mary Poppins e Peter Pan e vediamo una carrellata dei personaggi di quasi tutti i Classici precedenti nei titoli di coda) è ridondante. Rivedere le casette nei boschi circondate da animaletti canterini come in Biancaneve e La Bella Addormentata, creaturine bizzarre come in Alice nel Paese delle Meraviglie, le atmosfere pseudo-medievali di Robin Hood e addirittura alcune battute fanno il verso a Zootropolis (che resta il miglior film Disney degli ultimi 15 anni) più che un reale omaggio sembra quasi un occhiolino a quelle teorie complottiste che vedono collegati tutti i film Disney. Sembrano esserci degli ammiccamenti perfino a film Dreamworks nei vestiti e nell’architettura a metà tra Shrek e la Samotracia di Sinbad e il character design guarda molto al Peyo dei Puffi. Wish sembra essere svuotato di qualsiasi elemento distintivo, non omaggia ma nemmeno copia bene.

Ma veniamo ai veri tasti dolenti: il comparto visivo. La tecnica ibrida tra disegni tradizionali e CGI, volta ad abbandonare il realismo e a riprendere quei caratteri classici a tratti non funziona e risulta nei personaggi di contorno veramente incerta, quasi da animazione di raccordo di un videogioco o di un cartone televisivo dei primi anni 2000. Senza scomodare chi con questa tecnica ibrida ha realizzato dei gioielli (Spiderman), Disney è ben lontana da quelle piccole meraviglie come Paperman o Feast

Le canzoni invece, sono semplicemente bruttine e dimenticabili, con delle linee vocali sempre meno melodiche e più parlate che di sicuro non facilitano nemmeno il lavoro degli adattatori, peggiorando del materiale non eccelso.

Lo scenario animato Disney del 2023 è desolante, e ancora più triste è considerare un cortometraggio ipercelebrativo e poco innovativo come Once Upon a Studio, che riunisce insieme più di 500 personaggi della storia Disney, come il vero capolavoro dell’anno per lo studio.

Nicolò_cretaro
Nicolò Cretaro,
Redattore.