Immersi nel tempo; cristallizzati in singoli momenti, nel corso di un percorso accidentato e non lineare, che va avanti e indietro tra presente e passato, e ritorno. Così i personaggi e gli spettatori di We live in time: il nuovo film di John Crowley su cui l’onnipresente A24 ha messo il cappello in qualità di distributrice. Una storia d’amore sul tempismo – abbastanza ironicamente, uscita in Italia con il consueto ritardo rispetto al resto del mondo – e, per un po’ di tempo prima della sua uscita, perlomeno in ambito anglosassone il film “del cavallo giallo sorridente in primo piano”, meme prontamente adottato da A24 nel proprio merchandising. Non è, non vorrebbe essere, la consueta storia d’amore.
Intorno a singoli momenti
Lui e lei, poco più che trentenni, si trovano a un punto di svolta nelle rispettive vite. Lui, Tobias (Andrew Garfield), rappresentante di una nota marca di cereali, giunto alla fine di un percorso sentimentale; lei, Almut (Florence Pugh), chef all’inizio di una promettente fase della sua carriera. Le loro storie cominciano a ruotare attorno ai tipici momenti di una coppia: uno scontro casuale, le rispettive famiglie, i progetti e le ansie per il futuro, qualche litigio, un idillio in una casa di campagna in mezzo al verde. Poi il progetto (o l’assenza di esso) di metter su famiglia e il difficile equilibrio tra vite private e lavoro. In particolare, la diagnosi di cancro che colpisce Almut, decisa più che mai a non perdere le occasioni, a non lasciarsi sfuggire il tempo che resta, è il cardine attorno cui ruota tutto il resto.
E noi conosciamo questi momenti seguendo non la progressione cronologica ma quella, apparentemente più casuale e frammentaria, delle emozioni. La sceneggiatura di Nick Payne opta per una scansione non lineare, che isola ciascun momento e lo propone in un ordine apparentemente alla rinfusa. Ogni frammento amplifica ed esemplifica altri, in un mosaico che comprende l’ampio spettro dei momenti peggiori – che impattano con maggior forza nell’equilibrio della love story – e i momenti belli: quelli che, in fondo, resistono più a lungo al passaggio del tempo, ci accompagnano con maggiore persistenza, anche quando non ce ne rendiamo conto.
Una love story come un’altra
We live in time è un film dei corpi tanto quanto delle emozioni. La carne, la malattia, le funzioni biologiche sono messe in gioco tanto quanto la trama di emozioni che spinge i corpi in rotta di collisione gli uni contro gli altri, assecondando il tempo (e anche il caso). Se, almeno in questo, We live in time è una romantic dramedy appena più spietata ed edgy della media, la sua narrazione non lineare è allo stesso tempo la sua più grande trappola: un’arma a doppio taglio, una promessa non sempre mantenuta con efficacia. Definire la progressione non lineare di We live in time una gimmick sarebbe riduttivo, ma neppure troppo lontano dalla realtà.
Tutto è perfettamente leggibile e comprensibile fin dall’inizio: questo non è necessariamente un male, ma si ha l’impressione che il meccanismo narrativo di We live in time rimanga in superficie; che, il più delle volte, sacrifichi la potenziale complessità e le possibili sfumature a favore di una più comprensibile linearità, e in questo sacrifichi paradossalmente anche il cuore dei suoi stessi personaggi. Nonostante gli sforzi dei loro interpreti, la loro caratterizzazione non va molto più a fondo di questa storia tra passato e presente (e ritorno), soprattutto per quanto riguarda lui. La loro storia non sfugge al passare del tempo, ma neppure ai limiti di una sceneggiatura poco interessata a indagarne le psicologie.
Produzione assolutamente convenzionale e, in quanto tale, perfettamente godibile, tenta di sembrare qualcosa di più profondo e ogni tanto ci riesce pure. Più che degno per spenderci sopra qualche lacrima, in sala, quando le luci si accendono e si torna ad apprezzare il momento presente, almeno per un po’ di tempo.

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