Appare inevitabile constatare come dopo The Tree of Life il cinema di Terrence Malick sia radicalmente cambiato. È come se il capolavoro vincitore della Palma d’Oro 2011 (al quale su Framescinema.com è stato dedicato un ricco approfondimento, che potete trovare qui) avesse segnato da un lato il culmine della filmografia del regista texano, vetta di un percorso di ricerca stilistica durato decenni, e dall’altro una sorta di punto di non ritorno: da quel momento in poi, infatti, il cinema di Malick ha teso sempre di più alla rarefazione e ha definitivamente abbandonato qualsiasi struttura narrativa tradizionale, con esiti altalenanti quando non francamente discutibili, da To the Wonder a Song to Song, passando per Knight of Cups.
Si inserisce perfettamente in questo itinerario autoriale anche Voyage of Time – Il cammino della vita, già presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel lontano 2016, che giunge finalmente nei cinema italiani nel marzo 2022. Nei mesi passati, in realtà, ne era già stata distribuita su MUBI la versione breve (45’) con la voce narrante di Brad Pitt, intitolata Voyage of Time: The IMAX Experience. Quello che arriva in sala, invece, è un vero e proprio lungometraggio (90’) documentario che, con Cate Blanchett in voice over e la consulenza scientifica del Prof. Andrew Knoll (Università di Harvard), si propone di mettere in scena la formazione dell’universo e la nascita della vita sulla Terra, come a voler espandere a dismisura la straordinaria sequenza della genesi del mondo di The Tree of Life.
Malick, infatti, recupera l’impianto iconografico del film del 2011 (al quale, peraltro, parrebbe addirittura rubare qualche fotogramma “scartato”, visto che non mancano sequenze davvero identiche: le riprese dell’Antelope Canyon, alcune scene con le meduse, un albero che si vede verso la fine…) e fonde elaborazioni digitali di fenomeni cosmici con immagini naturalistiche di grande bellezza (la fotografia è di Paul Atkins), talvolta integrate da effetti speciali che riportano in vita diversi animali preistorici. Il risultato è visivamente notevole – anche se non particolarmente originale o mai visto prima: ci sono documentari del National Geographic che non hanno granché da invidiargli – e alcune immagini restano impresse nella memoria: un’eruzione lavica sottomarina, una formazione corallina che ricorda una moltitudine di mani protese verso il cielo, l’inquadratura di un elefante morto nel mezzo di una deserta piana africana, fino ad arrivare a un paio di impressionanti riprese aeree notturne di Dubai, così futuristica da sembrare la Coruscant di Star Wars. A lasciare ben più perplessi, da un punto di vista meramente visivo, è la rappresentazione dei primi uomini, che fanno la loro comparsa verso la fine del film. Malick li mostra in maniera così patinata ed edulcorata da renderli impalpabili (non hanno un solo pelo addosso), evita accuratamente di inquadrare le pudende e tratteggia la vita primitiva con immagini così “pulite” da risultare solo fastidiosamente calligrafiche, lontanissime da qualsiasi realismo documentaristico: da questo punto di vista è ben più riuscito e coraggioso un film come La guerra del fuoco (1981) di Jean-Jacques Annaud.
In fondo, se Voyage of Time si limitasse a essere un documentario naturalistico, potremmo anche fermarci qui. Malick, tuttavia, ha ben altre ambizioni e mira, con questo film, ad aggiungere una postilla ai temi già trattati in The Tree of Life. Ciò è chiaramente rivelato dalla voce narrante di Cate Blanchett che, con un tono in bilico tra misticismo e preghiera, non fa altro che invocare la Madre di tutti noi e rivolgerle invocazioni e domande esistenzial-marzulliane di irritante banalità (“Madre, che cosa amo quando ti amo?”), che dovrebbero far riflettere lo spettatore sul senso dello stare al mondo, sul proprio rapporto con la Natura e sull’amore infinito che la abita. Che Malick faccia ampio uso di voce fuori campo non è certo una novità, ma nei suoi film migliori essa è un modo per far accedere chi guarda il film alla dimensione spirituale dei personaggi. Siccome qui non ci sono personaggi e, dunque, qualsiasi immedesimazione empatica è impossibile, le parole della Blanchett paiono davvero domande retoriche sui massimi sistemi buttate al vento, incapaci di comunicare con la soggettività dello spettatore o di stimolare in lui una qualsiasi riflessione, laddove la Natura comunica da sé la sua grandiosa bellezza e imperturbabilità, senza bisogno di essere costantemente interrogata. Le immagini del film, peraltro, sono talvolta intervallate da sequenze girate in bassa definizione, che mostrano scene di vita umana contemporanea (si va da matrimoni e feste religiose ai tumulti di Piazza Tahrir del 2011) e dovrebbero stabilire un rapporto tra la formazione della Vita e ciò che siamo diventati nei millenni: l’idea, nuovamente ripresa da The Tree of Life, sarebbe quella di mettere in relazione piccolo e grande, particolare e universale, attimi ed ere geologiche. In questo caso, tuttavia, il legame concettuale tra le varie immagini è assai labile e lo spettatore fatica a essere trascinato emotivamente dalle vertiginose associazioni.
Voyage of Time, in definitiva, è l’ennesimo film con cui Terrence Malick dimostra di aver, almeno in parte, smarrito l’ispirazione dopo il 2011: molti dei suoi ultimi film paiono inseguire la compiutezza espressiva e intellettuale di The Tree of Life e finiscono per essere opere “minorissime” nella filmografia del regista texano, pallide imitazioni dei capolavori di un cineasta che, per diversi decenni, ha portato avanti un discorso autoriale straordinariamente coerente e stimolante, ora spesso ridotto a parodia di se stesso.
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