Una donna promettente (Promising Young Woman) si inserisce a pieno titolo nel recente filone me-too cinema che prova ad articolare un nuovo discorso sulle vessazioni del genere femminile, e sulle sue forme di rappresentazione, per scardinare quel complice sistema di connivenza sociale che, tra omertà gregaria e sostanziale impunità, tende a proteggere il maschio predatore coprendone gli abusi nascosti (pensiamo a L’uomo invisibile di Leigh Whannell, altro importante tassello di questa corrente).
Tematica centrale nel film di Emerald Fennell, volto noto della serialità – è Camilla Parker Bowles in The Crown – qui all’esordio alla regia, è ciò che sperimenta Cassie, una dolente e strepitosa Carey Mulligan candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista, trentenne scottata dallo stupro dell’amica Nina avvenuto ai tempi dell’università di medicina. Lasciati gli studi, aliena da contatti affettivi (la reiterata frontalità delle inquadrature la distanzia isolata nei controcampi di dialogo), morsa dai sensi di colpa per non aver salvato la compagna, Cassie consacra la sua vita alla vendetta, facendo ogni notte da esca per viscidi approfittatori attirati nei locali, fingendosi preda inerme per poi ribaltare all’improvviso i rapporti di forza.
L’idea registica è quella di far scontrare la soggettività reclusa e traumatizzata della protagonista, i duelli psicologici e l’impianto drammatico di un ellittico rape & revenge per interposta persona con spiazzanti scarti di tono riconducibili ad altri registri: la rom-com più zuccherosamente pop (il ballo in farmacia su Stars are blind di Paris Hilton), il cinecomic sotto mentite spoglie (Cassie deambula sfibrata sembrando quasi un ibrido tra Joker-infermiere e un’Harley Quinn imparruccata), e soprattutto la commedia adolescenzial-goliardica americana. Sottogeneri di cui Emerald Fennell si impadronisce per smascherarne la tipica leggerezza assolutoria, la finta natura di gioco innocuo e innocente. Presentando un nutrito e ben noto campionario di riti, stilemi, stag party e facce note (l’Adam Brody di The O.C., il Mintz-Plasse/MCLovin di Suxbad, la Jennifer Coolidge/Stifler’s mom di American Pie, il Max Greenfield/Schmidt da New Girl) per mostrare con evidente intento metacinematografico che pressoché tutti i personaggi, senza distinzioni di genere, insistono a passeggiare nella gioconda, e in fondo comoda, irresponsabilità di un college movie, più o meno ignari di abitare la reale dimensione di una tragedia.
Lo stridente contrasto di umori e generi riflette l’ideologia messa sotto accusa: la resistente percezione distorta, sociale e individuale, dello stupro, niente più che l’effetto collaterale di una sbornia, archiviato per sempre una volta esauriti i postumi. Nella forza urgente del messaggio, c’è il rischio, non del tutto scongiurato, del film a tesi e di un certo meccanicismo di fondo, che ingabbia l’azione e il percorso di liberazione di Cassie alla coazione a ripetere scena e assunto iniziali (donna indifesa e vulnerabile, molestatore che ci si avventa sopra), senza troppe possibilità di scampo narrativo. Ciononostante, il film riesce a brillare e a tenere alta l’asticella del thrilling, spostando bruscamente attese e aspettative dello spettatore con almeno due grandi controcolpi di scena (meritando con ciò la statuetta per la miglior sceneggiatura originale). Un film che colpisce nel segno, oscillando tra un agghiacciante fuori campo interno (non viene mostrato lo stupro, ma la tremenda reazione del volto di Cassie alla sua visione) e le immagini senza stacchi della degradazione del corpo di una donna in tutta la loro potenza disturbante, specchio di una patologica e anestetizzata indifferenza maschile che ci riguarda tutti.
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