“Il problema con il mondo è che tutti gli altri sono indietro di qualche drink”, spiegava Humphrey Bogart, uno che di bevute se ne intendeva. Quasi la stessa tesi che in Un altro giro (Druk) di Thomas Vinterberg – vincitore dell’Oscar 2021 come miglior film internazionale – è accreditata allo psichiatra-filosofo norvegese Finn Skårderud, secondo cui la persona sobria sconterebbe un costante deficit di una piccola percentuale di alcool nel sangue (lo 0,05 %, uno o due bicchieri di vino), senza la quale non godrebbe davvero appieno dell’armonia con sé e il prossimo. Quattro professori in crisi di mezza età, Martin, Peter, Tommy e Nikolaj, variamente insoddisfatti delle loro vite, decidono allora di improvvisarsi alcolisti anonimi con piglio scientifico, in un progressivo crescere dell’etilometro a tutto schermo che porterà nuove epifanie e conseguenze nefaste.

Non è, però, un goliardico e decerebrato hangover movie spinto agli eccessi, al contrario di quanto la locandina e un certo battage pubblicitario facciano pensare. Come ha notato, con sensibile affinità critica, Paolo Sorrentino – che reputa il film un capolavoro – in una recente call a due col regista danese per Variety, Vinterberg adotta una prospettiva più sottile e intimamente suggestiva. Piazzando il suo racconto in “quel preciso momento in cui non sei ubriaco, ma un po’ ubriaco”. Quella zona franca, libera ma sfuggente, precaria e mai durevole, difficile da filmare e mettere a fuoco, in cui “[…] credi che tutto sia possibile”. Una provvisoria tregua dal mondo che assomiglia alla felicità.

In quest’ottica, Vinterberg si mostra capace di un piccolo film meno dogmatico e ambizioso dei precedenti affreschi al nero sulle torbide relazioni tra individuo e ambiente sociale – la famiglia in Festen (1998), la comunità ne Il sospetto (2012) e La comune (2016). Ma forse proprio per questo riesce a saggiare, con una regia fluida e frizzante, gusti musicali assortiti (da Tchaikovsky al funk 70’s dei The Meters) e una complice empatia aderente ai personaggi, tutte le sfumature e le diverse temperature di un dramedy in bilico tra euforia spensierata e dolorosa lucidità. Senza far mai sbandare i toni e sbilanciare le dosi del cocktail narrativo (probabile ragione dei favori dell’Academy e della company di Leo Di Caprio, che si è affrettata ad acquisire i diritti del remake Usa). Indulgendo sì nella descrizione affettuosa e divertita dei round alcolici del suo drink team, con un bel tepore luministico e funzionali angolazioni di ripresa in prossimità che, sfocando, danzando, ruotando e ruzzolando insieme al quartetto, giostrano equilibri sempre più precari, senza però pregiudicare lo spessore e il peso drammatico delle azioni dei personaggi. Trovando il baricentro e il termometro emotivo nel volto ferito di un intenso e generoso Mads Mikkelsen (premiato come miglior attore agli European Film Awards), su cui sono incise tutte le pieghe e i lividi tumefatti per una vita implosa e soffocante che prova a svoltare nei nuovi stimoli dati dall’ebbrezza (il difficile rapporto di Martin, continuamente rinegoziato, con la moglie Anika costituisce un cupo e  melanconico romance a sé stante)

Assoldati come guru, a sorvegliare la narrazione, i padri nobili dell’alcolismo come realpolitik, gli artisti della bottiglia, i bevitori professionisti della grande Storia: Hemingway, Churchill, Franklin D. Roosevelt, il generale  Ulysses Grant, affissi alla lavagna da Martin per catturare l’attenzione dei suoi studenti, ricordandogli che “il mondo non è mai come te lo aspetti”. Pur senza il Bogart di Casablanca, che di nazionalità si professava ubriacone, Un altro giro caldeggia una coraggiosa e didattica ragionevolezza del bere anche a costo della tragedia, senza il proibizionismo morale del politicamente corretto. Vinterberg, pur segnato da un tremendo lutto familiare (la figlia scomparsa in un incidente d’auto a pochi giorni dall’inizio delle riprese), conserva la gioia della speranza verso il futuro, si unisce alla pazza folla delle nuove generazioni in festa e certifica che anche bevendo si diventa cittadini del mondo, con la serena accettazione della propria fallibilità.

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Daniele Badella, Redattore