Edgar Wright è sicuramente uno dei registi più apprezzati e amati dalla critica degli ultimi 15 anni. Salito alla ribalta grazie a commedie come Hot Fuzz (2007) e L’Alba dei Morti Dementi (2004) e all’action musicale Baby Driver (2017), è riuscito, grazie a uno stile estremamente peculiare, ad affermarsi come uno dei nomi più interessanti del panorama hollywoodiano contemporaneo.
Per questo motivo la sua ultima fatica Ultima notte a Soho (Last Night in Soho), presentata a fuori concorso Venezia 78 in seguito a slittamenti dovuti alla pandemia, era uno dei film più attesi dell’anno, anche grazie a un cast di attori sulla cresta dell’onda come Anya Taylor-Joy e Matt Smith.
Va detto, innanzitutto, che questa pellicola si distacca in parte da quello che è lo stile del regista inglese, che decide di firmare un thriller dal sapore orrorifico, abbandonando quasi completamente l’approccio comedy, per creare un racconto molto più serioso, con tinte molto più dark di quelle a cui ha abituato il pubblico nel corso della sua carriera.
Il film racconta la storia di Ellie, studentessa inglese di provincia che arriva a Londra per studiare moda in un’importante università, che si troverà ad essere trasportata in sogno nella Swinging London degli anni ‘60 e ad assistere alla vita notturna dell’aspirante cantante Sandy, che qualche decennio prima aveva vissuto nella sua stessa stanza in affitto nel quartiere di Soho.
La protagonista, inizialmente affascinata da queste visioni, scoprirà presto il lato oscuro e sordido che si cela dietro la superficie scintillante delle notti al neon anni ‘60, oscillando sempre di più tra realtà e sogno, tra follia e paranormale.
Il primissimo elemento che salta all’occhio analizzando il film è sicuramente la maestria e l’abilità tecnica messa in campo nella realizzazione di questo progetto. L’attenzione al dettaglio di Wright è ai limiti del maniacale, ogni inquadratura è perfettamente studiata, rendendo ogni soluzione registica mai superflua e mai scontata nella forma. Il cineasta inglese riesce nel difficile compito di costruire una messa in scena molto glamour ed elegante che regala più di qualche guizzo geniale: molto interessante e molto ben realizzato, infatti, è il gioco di specchi che fa da leitmotiv per tutta la durata della pellicola, risultando un espediente molto efficace sia narrativamente che a livello visivo. Va riconosciuto, però, come la vera scena madre del film (parlando sempre di aspetti tecnico-formali) sia, indubbiamente, la prima sequenza di ballo nel locale londinese anni ’60 che è, onestamente, un momento di grande cinema, una commistione strabiliante di coreografia e montaggio.
La mano di Wright, in ogni caso, è presente e si vede soprattutto nell’utilizzo della colonna sonora, vera e propria co-protagonista del film. Come accadeva già in Baby Driver, infatti, essa non si limita al ruolo di accompagnamento e commento musicale, ma diventa elemento centrale nella costruzione di molte sequenze che si basano, appunto, sul ritmo e sulle atmosfere evocate dalla canzone scelta, influenzando e dirigendo i movimenti degli attori in scena, precisamente calibrati sulla colonna sonora.
Un altro comparto che va sicuramente elogiato è quello dei costumi che, anche grazie a delle scenografie molto ben realizzate, riesce a trasportare immediatamente lo spettatore nella Londra degli anni ’60, creando un contesto così cool e visivamente caratteristico che fa quasi rimpiangere il non averlo potuto vivere di persona.
Nonostante, quindi, un ottimo reparto tecnico in toto, ciò che ruba veramente la scena è la direzione della fotografia: la maggior parte del film si svolge in notturna e Chung Chung-hoon (DoP sudcoreano già collaboratore di Park Chan-wook, qui alla prima volta con Wright) catapulta il pubblico in una città chic e patinata, fatta di pioggia e luci al neon, con i blu e i rossi a farla indiscutibilmente da padroni, creando un ambiente visivo suggestivo e coerente con le intenzioni della pellicola, che, pur pagando più di qualche debito alle ultime opere di Nicolas Winding Refn, riesce a intavolare un discorso cromatico interessante ed efficace.
Per quanto riguarda il cast risulta particolarmente convincente la prova della protagonista Thomasin McKenzie che invece, messa in ombra a livello promozionale dalla collega Anya Taylor-Joy, si rivela essere un’interprete convincente e azzeccata, in una parte forse un po’ stereotipata, ma certamente non facile.
Parlando invece proprio di Anya Taylor-Joy è innegabile che la giovane attrice abbia il physique du role per interpretare la classica diva d’altri tempi; tutti i pezzi infatti sono al posto giusto: lo sguardo buca lo schermo, il look è quello giusto, il portamento è da grande star. La scrittura del personaggio, tuttavia, non le permette di mettere in mostra tutto il suo talento. Insomma: la ragazza si farà, ma certamente non è questo il ruolo della consacrazione a livello cinematografico.
Breve menzione anche per il principale interprete maschile, ovvero Matt Smith che, così come la Taylor-Joy, ha il merito di risultare estremamente bello e affascinante, ma anche nel suo caso non si può dire che regali un’interpretazione memorabile.
Per spendere due parole sul messaggio del film, è chiaro come Edgar Wright si inserisca nell’ormai grande solco di pellicole che discutono sulla percezione della figura femminile all’interno della società, discorso quanto mai attuale ed importante nella realtà contemporanea.
Il regista, però, sciupa forse la possibilità di approfondire veramente la tematica, limitandosi ad usarla come espediente narrativo qui e come elemento per creare e alimentare la tensione là. Così tra sguardi viscidi e affamati di uomini predatori alla Il Silenzio degli Innocenti e storie di donne fisicamente e psicologicamente oppresse da un mondo che le riduce a semplici pezzi di carne con un “nome adorabile”, la pellicola si limita a far percepire il disagio allo spettatore, ma senza imbastire un discorso più approfondito a riguardo.
In conclusione, questo Last Night in Soho si rivela essere un film che, soprattutto nella prima metà, riesce a mettere in mostra idee molto interessanti e a regalare momenti di grande spessore cinematografico, ma che allo stesso tempo sfocia in una seconda metà sicuramente godibile e avvincente, che fallisce però nel pareggiare l’originalità delle premesse, cadendo in stilemi ed espedienti già visti e che tradiscono le grandi promesse della prima ora di pellicola.
Questo articolo è stato scritto da:
Scrivi un commento