Tuffarsi negli abissi del mare o restare immutati e terrorizzati dalle conseguenze delle proprie azioni? Il protagonista di Troppo Azzurro oscilla costantemente tra queste due possibilità.
Il film d’esordio di Filippo Barbagallo (da lui scritto, diretto e interpretato) è lo specchio di una generazione che si nasconde sotto una coperta, consumata dai troppi pensieri e dalla nostalgia.
Dario è uno studente di architettura che vive ancora con i genitori (Valerio Mastandrea e Valeria Milillo), frequenta i pochi amici di sempre ed è innamorato di Lara (Martina Gatti), che ammira da lontano tra sguardi e sorrisi goffi. Rimasto da solo in estate nella casa di famiglia, si ritroverà a intraprendere relazioni inaspettate e ad acquisire nuove consapevolezze.
Un’atmosfera retrò invade ogni sequenza (gli abiti di scena, la Panda, i videogames) come se il presente fosse continuamente influenzato dal ricordo di un passato mai vissuto effettivamente dai giovanissimi personaggi. Le musiche dei Pop X si inseriscono perfettamente in questo scenario e riflettono l’intento del regista, camuffando con melodie allegre dei testi intimi e descrittivi.
Il giovane autore ci presenta una storia agrodolce (non a caso il supervisore artistico è Gianni Di Gregorio) in una Roma estiva nella quale, come il cinema stesso ci insegna, può succedere tutto o niente. Dario sembra desideroso di accogliere le infinite opportunità che gli si presentano, ma quando avverte l’inizio di un cambiamento si rintana nelle sue abitudini, paralizzato dalla paura. L’immobilità vince contro ogni altra scelta, fermarsi non comporta effetti indesiderati, ma solo rassicurazioni. Perfino le antiche rovine di cui il protagonista scrive nella tesi di laurea si fanno metafora della sua interiorità: vengono definite rassicuranti e al contempo conturbanti e restano invariate e inerti in attesa di un futuro che non arriverà mai.
Dario, come il Nanni Moretti di Caro diario, sembra essere felice solo nel tragitto da un posto all’altro, pronto a rifugiarsi nell’esatto momento che precede l’azione.
Barbagallo ci suggerisce, citando Nabokov, che “l’unica felicità a questo mondo sta nell’osservare” ed è evidente che la sua opera prima sia frutto di un’accurata osservazione di se stesso e degli altri, volta a sdrammatizzare ansie e turbamenti, senza mai incappare nella superficialità.
Il film racconta con una malinconica ironia un periodo di transizione in cui il timore di diventare adulti si accorda con il desiderio di abbandonarsi all’azzurro più profondo.
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