Ruben Östlund in Triangle of Sadness è interessato a guardare attraverso le crepe dei nostri fallimenti in quanto esseri umani. Il regista allarga il suo punto di vista, esplicitando la volontà di catturare e ritrarre le disfatte della nostra società, non limitandosi a tratteggiarle nei singoli individui. Il contesto da cui questi fallimenti vengono generati sono il vero bersaglio al centro della pellicola ma il rischio è che la satira di classe voglia apparire più audace di quanto sia in realtà. Nonostante sia difficile uscire insoddisfatti dalla sala quando si è visto un film così divertente e sottile nei suoi momenti migliori- vengono subito in mente i botta e risposta tra il capitano, fiero Marxista (non comunista) sull’orlo di una crisi di nervi e il ricco magnate Russo portabandiera del capitalismo più sfrenato- si ha la sensazione che manchi qualcosa. Ulteriori tagli nella fase di montaggio e un finale meno derivativo avrebbero sicuramente contribuito ad evitare l’effetto compiaciuto di una sovversione intellettuale che non arriva a graffiare davvero il pubblico che ne dovrebbe rimanere più turbato.
Dal quadrato, a sua volta trionfante a Cannes, si passa ad un’altra forma geometrica, il triangolo, che utilizza comunque tattiche simili nel ricreare situazioni insostenibili per una classe sociale a proprio agio con il privilegio nel quale è immersa; un modo di fare cinema che lo rende lo studente modello della lezione impartita da Buñuel ne Il fascino discreto della borghesia.
L’innesto dell’azione nasce dall’industria della moda, elitaria e caratterizzata da rigide regole interne, un mondo che per definizione guarda dall’alto verso il basso i consumatori, basando sull’esclusività la propria immagine. Esclusività alla quale non sono immuni neanche i suoi volti più esposti: i modelli, le cui carriere possono essere tanto scintillanti quanto brevi, facendo dell’incertezza il prezzo da pagare per chi usa la propria bellezza come moneta di scambio. La maggior parte degli aspetti interessanti del film occupano proprio il primo atto che esplora i rapporti di potere in una coppia che naviga in questa industria. Carl e Yaya si apre con una sequenza che riflette in modo intelligente su questo aspetto e ci avvicina subito ad uno dei protagonisti, Carl (Harris Dickinson, che già nello splendido Beach Rats aveva dato prova di essere un volto adatto ad incorporare la fragilità alla rappresentazione maschile), un modello la cui carriera sembra essere arrivata ormai agli sgoccioli. Ne è informato da uno schietto commento del direttore artistico dell’algido brand per cui sta facendo un’audizione, quando questo gli suggerisce di utilizzare del botox per correggere il suo Triangle of Sadness, un’espressione che serve ad indicare la zona imbronciata appena sopra le sopracciglia.
Più tardi assistiamo ad un litigio furioso con la sua fidanzata Yaya, una modella che cerca di rimediare all’incerto futuro della sua carriera in passerella ritagliandosi un side job da influencer, che si aspetta sempre egoisticamente che sia Carl ad occuparsi del conto. Lui esprie invece il desiderio di sovvertire i tradizionali ruoli di genere e le aspettative che questi comportano e nonostante Yaya si dimostri inizialmente scettica, lo sviluppo della trama, in una situazione estrema, le lascerà spazio per esplorare ciò che questo comporta.
É proprio la sua esperienza come influencer che permette al film di cambiare scenario nel secondo atto, quando, grazie ad una crociera su uno yacht extralusso omaggiatole dal brand di turno, la coppia si trova a condividere gli spazi con un oligarca russo “re della merda”, una donna tedesca che a seguito di un ictus riesce a pronunciare solo la frase-tormentone In Der Volken e due coniugi inglese arricchiti grazie al commercio delle bombe a mano.
Qui ci si prende spazio per collezionare le stranezze di questa città galleggiante dove le nevrosi dei singoli passeggeri diventano esigenze da esaudire ad ogni costo nel nome dei soldi e le cui ansie vengono proiettate all’esterno nei confronti di forme fisiche, che siano esse vele inesistenti o steward particolarmente avvenenti.
Il carburante che li trasporta è la devozione alla bellezza -sfruttata per ottenere qualsiasi cosa si desideri- e al denaro, non importa se ottenuto nel più sporco dei modi (la merda o le armi). Ostlünd implica che l’unico esito possibile quando ci si affida a beni così volatili sia un declino, spesso improvviso, un naufragio inevitabile. Ed è proprio a questo punto che anche la pellicola sembra andare alla deriva.
Nonostante il film faccia dell’eccesso la sua cifra stilistica – eccesso che raggiunge il suo apice nel secondo atto del film, dove viene dedicato ampio spazio ad una sequenza in cui gli ultra ricchi passeggeri dello yatch, come ironico contrappasso, rigettano tutta l’abbondanza con la quale sono stati viziati- non si spinge abbastanza lontano, finendo per utilizzare il più classico degli espedienti per ribadire una lezione a cui il pubblico è già stato abituato.
Triangle Of Sadness rimane comunque permeato dalla qualità immaginifica e visiva di Östlund che restituisce scene appaganti, giocando con la telecamera che riprende l’ondeggiamento nelle acque agitate dalla tempesta.
É una giostra divertente da cui si scende sicuramente avvertendo un senso di nausea ma non abbastanza scossi. L’estremizzazione delle situazioni infatti non contribuisce ad estremizzare a sua volta le considerazioni su temi giganteschi come il genere e la classe, che sembrano invece non arrivare abbastanza lontano.
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