Perché un regista decide di girare un film? C’è il lato monetario, per cui l’obiettivo finale è arrivare al termine della giornata lavorativa con le scene girate così da portare a casa, a fine lavorazione, il proprio gruzzolo; c’è il lato artistico, quello che porta il regista a voler proporre un film che abbia all’interno una sua visione, un suo modo di raccontare; c’è il valore tematico, per cui il focus risulta essere sui temi trattati, siano essi dell’epoca in cui si vive oppure del passato.

Poi c’è M. Night Shyamalan che, senza alcuna remora, afferma di aver prima di tutto voluto realizzare il film per sua figlia, ma non come dedica bensì come opera vera e propria in cui farla brillare. Ed è così che il 7 luglio è arrivato in sala Trap, pellicola in cui Cooper (Josh Hartnett) accompagna la figlia adolescente Riley (Ariel Donoghue) al concerto della star Lady Raven (nientemeno che Saleka, figlia proprio di M. Night), scoprendo però come l’evento stesso sia in realtà una trappola costruita per catturare Il Macellaio, un serial killer che è, di fatto, proprio Cooper.

I film di M. Night Shyamalan sono però un bel terno al lotto, anche se negli ultimi anni possiamo tranquillamente affermare che, con pellicole come Glass (2019), Old (2021) e Bussano alla porta (2023), il regista ha dimostrato di voler proporre nei suoi nuovi film un certo grado di sperimentazione portando lo spettatore ad approcciarsi quindi ad ogni pellicola successiva chiedendosi: “Chissà cosa sto per andare a vedere”.

Un pesce in una boccia

Il film si apre con un’atmosfera priva di tensione, ma anzi pregna di felicità e amore in cui vediamo Cooper e la figlia scambiare diverse interazioni lungo il viaggio in auto verso lo stadio in cui i due discutono di tematiche comuni a tutti gli adolescenti, ma da cui fin da subito si nota una forte cura nella scrittura di alcune interazioni. Tra Cooper e Riley è infatti presente un rapporto     padre-figlia che fin dai primi minuti riesce a fare breccia nello spettatore proprio per il realismo che permea le loro interazioni e che continua per una discreta quantità di minutaggio: l’arrivo allo stadio con le lunghe file di fan che cantano le canzoni della pop-star, i gruppi di ragazzine intente a ricreare le coreografie dei videoclip negli spiazzi in attesa che aprano i cancelli, le urla, gli schiamazzi ed i cellulari subito in mano alla comparsa di Lady Raven. Tutto questo proietta fin da subito in un’atmosfera vicinissima al reale – e che chi è andato ad almeno un concerto di questo tipo riconoscerà essere davvero così – attraverso la quale Shyamalan mostra, senza in realtà supponenza o giudizio, un atteggiamento ormai standard del vivere con lo smartphone in mano, del dover filmare “perché altrimenti non è successo”.

In tutto questo però il regista ribalta completamente la prospettiva, poiché quello che è di fatto il protagonista risulta essere un outsider, qualcuno che in quel luogo non dovrebbe esserci, che è decisamente fuori target e che non si amalgama alla folla di ragazzine; un outsider però anche dalla società, in quanto – e la pellicola di ciò non ne fa certo mistero – Cooper è anche Il Macellaio, un serial killer che trae piacere nel torturare e nell’uccidere le persone. Ecco quindi che un evento così distante da lui si trasforma nella modalità perfetta per la sua cattura, senonché ancora una volta il regista ribalta la situazione: Cooper, da topo in trappola, diventa infatti un astuto e calcolatore gatto, pronto a sfruttare ogni situazione e spiraglio per poter sfuggire dalla gabbia che gli hanno costruito attorno. Al tempo stesso il problema più grande per il protagonista diventa anche il suo più grande tesoro: la figlia, ignara della verità sul padre, diventa quasi una zavorra, un legame con un universo che Cooper non riesce a controllare (a differenza dei tovaglioli perfettamente piegati o dell’asciugamano dalla lunghezza simmetrica in entrambi i lati) ma con cui, per amore, è inevitabilmente portato a dover fare i conti.

American Psycho (Taylor’s Version)

Il metodico e astuto Cooper ricorda molto da vicino quel Patrick Bateman protagonista del cult American Psycho (Mary Harron, 2000), con repentini cambi di espressione, capacità di adattare qualsiasi situazione a proprio favore sfruttando una freddezza incredibile, atteggiamenti che nascondono desideri repressi che fuoriescono quando il protagonista si trova in solitudine. In questo Josh Hartnett svolge davvero un lavoro incredibile, mettendosi completamente in gioco in un continuo susseguirsi di situazioni in cui il suo personaggio è costretto ad adattarsi per sopravvivere ed in cui quindi entra in gioco quel leggero ma efficace cambio di sguardo, una camminata più o meno sicura, un sorriso più o meno rassicurante. Non abbiamo Wall Street e non abbiamo l’alienazione dettata dal mondo capitalistico che portava Bateman ad essere uno psicopatico e su questo versante la pellicola decide di non approfondire, relegando al passato del protagonista ed alle possibili motivazioni che lo spingono soltanto un paio di momenti abbastanza scarni, che se da un lato portano al desiderio di saperne di più – soprattutto per la poca fantasia della “madre severa che ha dato poco amore al figlio” – aiuta di fatto a generare quella figura di un outsider perfettamente calato nella società, quel vicino di casa di cui nessuno sospetterebbe: il vigile del fuoco con una moglie, due figli ed una casa in un bel quartiere di Philadelphia che, in realtà, rapisce e tortura persone in cantina. Una storia tipicamente da film, ma mai così vicina alla realtà.

Ciò che però Trap di fatto propone, su un livello maggiormente mostrativo, è una pellicola, in realtà, estremamente divertente: divertente perché si ride ed anche di gusto in più di un momento, grazie a diversi scambi di battute folli, con un umorismo quasi dark in alcuni momenti e che aiuta ad entrare nell’atmosfera così surreale del film; ma divertente anche perché la fuga di Cooper non si manifesta in una carneficina a suon di mitragliatori, bensì in una calcolata partita di scacchi che, mossa dopo mossa, porta a chiedersi chi sarà di fatto il vincitore di una partita di così alto livello. In questa scacchiera sono quindi presenti numerose pedine, tra le quali spicca inevitabilmente Saleka, la splendida Lady Raven che non solo confeziona un concerto a schermo incredibile e coinvolgente – tanto che chi scrive non ci penserebbe due volte ad acquistare un biglietto per uno suo spettacolo – ma che ricopre nella seconda fase del film un ruolo tutt’altro che minore riuscendo a tenere testa senza problemi al talento di Hartentt.

Risulta però doveroso, a questo punto della recensione, sottolineare come Trap risulti essere un film che non piacerà a tutti: non è quel capolavoro di cui sentiremo tessere le lodi tra cinquant’anni soprattutto poiché richiede nello spettatore una massiccia dose di sospensione dell’incredulità. Se le interazioni iniziali con la figlia e tutto ciò che riguarda il concerto in quanto tale rasentano la realtà, molte interazioni tra i personaggi ma soprattutto molte azioni eseguite da Cooper necessitano che lo spettatore, semplicemente, le accetti. Qualcuno potrebbe dire tipicamente b-movie, altri tipicamente M. Night Shyamalan, fatto sta che se non si riesce ad entrare in sintonia con la melodia proposta, il film risulterà essere una sequenza di momenti esilaranti per il motivo sbagliato e che porteranno fin da subito al disinteresse totale.

Volendo però chiudere in bellezza, non si può non parlare dell’aspetto tecnico della pellicola: il comparto audio è incredibile, con lo sfruttamento dell’audio 3D che permette un’immersione totale soprattutto durante i momenti musicali (in cui sembra davvero di essere nello stadio con i personaggi); ottima anche la fotografia e l’illuminazione, che donano agli ambienti un tono colorato riuscendo a cambiare repentinamente dall’atmosfera gioiosa del concerto per Riley alla tensione ed allo studio metodico dei luoghi per Cooper; ed infine un plauso va inevitabilmente a M. Night Shyamalan che con le sue scelte di regia riesce a costruire perfettamente sia i momenti di tensione – di cui ormai possiamo definirlo quasi un maestro vista la quantità di momenti riusciti nelle sue pellicole – in cui si sceglie di porre il punto di vista sempre vicino al protagonista, permettendo allo spettatore di immedesimarsi così ancora di più non ritrovandosi mai in una situazione “divina” di onniscienza, sia tutte le sequenze più tranquille e posate, in particolare quelle legate al concerto, co-protagonista effettivo di buona parte del film.

Conclusioni

Ciò che vediamo in Trap è quanto di più “shyamalaniano” si potesse pensare: non siamo davanti ad una sequela continua di colpi di scena – che comunque sono presenti, anche se in numero ridotto – quanto piuttosto ad una pellicola che avrebbe potuto realizzare soltanto lui, in cui si pone lo sguardo ancora una volta sulla società odierna, sul mondo musicale e dei concerti e di come questi vengano vissuti in primis dal pubblico di riferimento – di cui Riley è personaggi chiave – ma soprattutto da un outsider; ribaltando però il tutto, Shyamalan trasforma l’outsider nel punto focale della narrazione, trasformando un luogo dal quale solitamente non vorresti mai uscire in una vera e propria trappola. 

Sospendendo fortemente la propria incredulità, lo spettatore si può quindi ritrovare davanti ad una pellicola estremamente divertente, che lo terrà facilmente incollato allo schermo per tutta la sua durata grazie a delle ottime interpretazioni del cast – su tutti Hartnett e Saleka – ed un ottimo comparto tecnico, su cui spicca la solida regia di Shyamalan. Oppure si può scegliere di non farlo, di non sospendere la propria incredulità e di non accettare il patto: allo spettatore, come sempre, spetta l’ultima parola.

Mattia Bianconi
Mattia Bianconi,
Redattore.